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12/02/2020 Nota di Franco Buffoni sul Cirque nel libro
Ciò che appare evidente a prima vista in Cirque Ishtar di Marco Rovelli, già molto noto come musicista, è la commistione tra prosa e poesia, intesi come generi letterari riconoscibili tipograficamente. Ma se dalla prima vista si passa alla prima lettura, ci si rende subito conto di come il racconto – inteso in senso prosastico, alias la narrazione – sia maggiormente presente nei brani formalmente poetici («Basta, dico a voce alta. Spengo la radio, metto mano alla leva dell’acqua / aziono il tergicristallo, che con fatica raschia via il fango»), mentre la “poesia” – o ciò che comunemente si intende per “poetico” – emerge più facilmente dai brani in prosa: «Io, viaggio con l’addio in corpo. Per cieli troppo vasti…». Contraddizioni della scrittura? O aderenza felice a una tradizione di Petits poèmes en prose che con Baudelaire raggiunse le sue vette più straordinarie? E in Italia è proseguita felicemente attraverso l’opera di Giampiero Neri per approdare agli autori del Gruppo Gammm, da Bortolotti a Raos, da Giovenale a Inglese a Zaffarano, fino ai più giovani come Jacopo Ramonda. Che Cirque Ishtar sia il libro di poesia in primis di un narratore e di un musicista che non dimentica – non può dimenticare – di essere tale, appare chiaramente dal filo rosso di una trama, che potremmo definire “d’ansia esistenziale”, percorrente l’intera opera. Con lo sdegno – attraverso il detto e il non detto – che passa costantemente dai contesti privati e personali a quelli pubblici e politici. Magari per brevi accenni, scudisciate che però lasciano il segno: «Poi, di nuovo. La replica della storia. Ma quando una storia è passata diventa mito. E il mito si celebra, ogni volta come un sacrificio». Cirque Ishtar è un libro di poesia denso e perplesso, complesso e da meditare, tanto stratificato e lento nel suo tempo di scrittura, quanto allarmante nell’immediatezza della sua rappresentazione drammatica. È un libro di poesia indispensabile per i lettori disperati di oggi. |
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