Recensione a La parte del fuoco di Geraldine Meyer su L'Ottavo
Torna in libreria La parte del fuoco di Marco Rovelli e ci torna grazie alla pugliese TerraRossa che, con la sua collana Fondanti, ripropone opere troppo presto dimenticate. Questo libro venne pubblicato da Barbès ma ebbe vita breve, troppo breve. La casa editrice, infatti, chiuse dopo due mesi dalla pubblicazione cacciando ai margini della storia le sue pagine e i suoi protagonisti. Che, proprio come il libro sono, infondo, due clandestini, Karim tunisino immigrato irregolare e Elsa, giovane donna prigioniera del suo stesso disagio, costretta a entrare e uscire da varie cliniche per il suo gridare il dolore provocandosi ferite al corpo.
I due si incontrano dalla parte del fuoco che è quel luogo umano in cui per far vivere qualcosa è necessario bruciarne altre. Le loro storie ci vengono raccontate con una scrittura in cui nulla è lasciato al caso, sia in termini di ricercatezza linguistica sia in termini di lavorio sulle parole. Una lingua musicale (Rovelli è anche musicista) che non perde quella lucidità tipica di chi ha scritto reportage.
In un “rimbalzo” tra la seconda persona singolare con cui ci viene raccontato Karim e la prima con cui si racconta Elsa, veniamo condotti nelle vite di due persone che sono però anche il racconto di un intero sistema che non riesce a fare altro che “ghettizzare” chi non rientra nei sicuri confini della normalità, qualunque cosa questa parola, dalle derive pericolose, possa rappresentare.
C’è acqua in questo libro, che è quella che Karim sente ancora nelle orecchie, eredità dei suoi viaggi per mare per trovare una vita migliore, c’è il sangue, quello che di Elsa e delle sue ferite, c’è corpo e ci sono le parole che sono qualcosa in cui abitare, proprio come si aspira ad abitare un luogo che ci accolga e che si lasci accogliere.
“È dal margine che si comprende la forma delle cose” scrive Rovelli nella prefazione al libro. Ed è esattamente la chiave di lettura del libro ma anche la cifra linguistica dello stesso. Non perché sia una lingua colloquiale, anzi. Ma perché è ciò che consente all’autore, più di ogni altra cosa, di viaggiare appunto lungo i margini delle vite raccontate e di denunciare l’arroganza di chi pensa di essere, invece, al centro. Perché di questo si tratta: un margine esiste se qualcuno si arroga il diritto di considerarsi centro.
Ci sono, tra queste pagine, parole di padri, sguardi di madri che paralizzano che creano, senza forse volerlo, prigioni che sono tanto soffocanti quanto i centri di detenzione per migranti o cliniche bianche e sterili. E allora Karim e Elsa si incontrano, soprattutto nelle parole, quelle proprie e quelle reciproche, quelle che si trovano quando si comprende che a un certo punto ci si può solo allontanare e camminare. Karim si allontana da un luogo che non gli offre nulla perché è la geografia culturale a non farlo, mentre Elsa si allontanerà in sé stessa dal luogo/famiglia: “La famiglia fortezza. Le tare che si perpetuano, nessuno che riesce a spezzare la catena, nessuno che prenda una scure e colpisca duro, nessuno che evada dalla prigione.”
Un libro di parole e corpi, di violenze e di solidarietà, di sguardi e silenzi che ci raccontano la viandanza faticosa e accidentata per arrivare alla libertà, che non esclude la vicinanza pur sempre nella solitudine. Perché la parte del fuoco è anche quella in cui la solitudine è il più forte legame tra persone che accettano di portare addosso la responsabilità di diventare ciò che sono.