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21/05/2020

Recensione a La parte del fuoco di Michele Maestroni su Il rifugio dell'ircocervo

 La vicenda contenuta ne La parte del fuoco è molto semplice: Karim è un immigrato tunisino, che, dopo la morte di suo padre e l’insoddisfazione per il lavoro presso un ufficio, ha abbandonato il resto della sua famiglia per cercare un nuovo inizio in Italia. Ci è arrivato per mare, lungo quell’infernale viaggio che le cronache stanno ricominciando a ricordarci. Elsa, invece, appartiene a un mondo diverso: è figlia di una famiglia benestante del Veneto, si sente ingabbiata in un mondo che non sa darle affetto e stimoli: anoressica e autolesionista, ha passato l’adolescenza in una clinica psichiatrica. Karim ed Elsa si incontrano per caso, e da quello sfiorarsi conflagra il loro riconoscersi.

 

Uscito presso la piccola casa editrice Barbès quasi dieci anni fa, patrocinato allora da Andrea Cortellessa e ora recuperato da TerraRossa grazie al talento per la riscoperta di Giovanni Turi e Giuseppe Girimonti Greco, La parte del fuoco è una storia che si svolge ai margini. On the edge, per dirla in una lingua dove il concetto di bordo è colorato con un senso di affilatezza. I tagli lungo i corpi di entrambi sgorgano da un linguaggio che non può farsi parola: linguaggio di fuga, di rottura, di fuoriuscita. Karim, occluso dall’etichetta giuridica di clandestino; catturato e imprigionato nelle celle del Centro di Espulsione, dove devi infliggerti tagli se vuoi restare perché necessiti cure. Elsa, stroncata da un ambiente asettico, repellente; rinchiusa in una clinica dalle pareti bianche e scivolose da una famiglia-fortezza la cui vicinanza è solo genetica – di sangue, appunto.

Entrambi vivono tenendo un lato del proprio corpo premuto contro il fuoco, inteso (come specifica Rovelli stesso, all’interno della meravigliosa prefazione che accoglie il lettore) come vampa sacrificale, calore che divora l’Altro affinché tu sia salvato. Il fuoco è vita, ma il vitalismo di entrambi i personaggi, il loro bisogno di fuggire, è condannato a fallire. Karim è un déraciné (sradicato) per avventura, scappa dal suo Paese per ritrovare quella stessa verdezza giovanile (virditas) di cui si sentiva inebriato, quando faceva il ballerino per le piazze di Tunisi. Al contrario, le radici di Elsa cercano disperatamente quel suolo fertile in cui non hanno mai affondato: la ragazza deambula tra l’ufficio del padre, la clinica e la strada che la riporta a Karim, ora nel suo rifugio in Toscana, ora in un campo di pomodori dove il tunisino lavora come bracciante.

Radici, terra, pietra. L’altitudine delle esistenze dei due è nulla, è al grado zero, rasente la crosta terrestre. Per la società “in alto” (il governo e la legge, per Karim; il padre ricco e di successo, per Elsa), non esistono: sono invisibili e precari. E quando vengono individuati, diventano anomalie da estirpare: il tunisino clandestino va rimpatriato, la pazza figlia di papà va invece curata. Nella maledizione, questa condizione permette anche assoluta libertà di azione, all’interno di un sottobosco che smorza la solitudine di Karim ed Elsa: gli amici del primo, anch’essi emigrati, che vivono alla giornata come i due protagonisti, cercando di aiutarsi a vicenda in una quotidianità che è tutta difficoltà – lavorativa, psicologica, economica – ai limiti della legalità, con spaccio, lavori in nero e rapporti basati sul potere e la violenza. Simbolo di come anche la contro-società vive di leggi e gerarchie che non risparmiano nessun destino.

Eppure, la libertà totale data dalla perenne zona d’ombra in cui vivere assume i connotati di una prigione. Karim, Elsa e tutti gli altri sono personaggi tormentati a tal punto che ogni loro scelta sottende un’immobilità, rifiuta la risoluzione. Il ragazzo non è in grado di legarsi stabilmente a Nevia, l’unica persona che è disposta a sposarlo per mettere fine alla sua clandestinità; l’atto di denuncia verso gli sfruttatori prepotenti viene ritirato per paura di sicure ritorsioni; Elsa non troverà mai uno spazio di pacificazione, nemmeno in un essere così simile a lei come lo è Karim. Il sangue che fuoriesce dai tagli con dolore e godimento, presto o tardi si secca, la ferita si richiude, si cristallizza ma rimane nel segno, in attesa di un nuovo atto di autodistruzione. La verità di cui entrambi i protagonisti brillano non è in grado di essere portata veramente alla luce: la verità che le sofferenze, le difficoltà e le miserie non hanno differenza di età, etnia, distanza o livello sociale.

Il significato de La parte del fuoco è racchiuso nel concetto del riportare. Marco Rovelli riporta con la narrazione un documento sulla vita di tutte quelle persone che vivono ai margini dei nostri negozi, delle nostre strade, dei quartieri più difficili; e delle stanze più buie, complicate e asfissianti di chi ha bisogno di un aiuto che è tutto, tranne quello materiale. E lo riporta a galla, lo lascia lì con delicatezza, sotto gli occhi della sensibilità del lettore, come i cadaveri galleggianti di chi ha provato ad attraversare il bordo e non ci è riuscito: «eravate fermi in mezzo al mare e i morti ti hanno aperto la strada. I morti chiamano i morti.»

https://ilrifugiodellircocervo.com/2020/05/21/la-liberta-di-un-taglio-che-sanguina-la-parte-del-fuoco-di-marco-rovelli/

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