Recensione a Portami al confine di Marco Buttafuoco su Globalist
Le recensioni sono, spesso, un genere insidioso. Si tratta di confrontarsi con l’opera di qualcuno, risultato di lavoro, sogni, riflessioni, ansie, dubbi, urgenze espressive e spiegarla a qualcun altro che non la conosce, ammantandola di considerazioni personali, d’ipotesi, talora di vere e proprie, anche se involontarie forzature. Marco Rovelli solleva gli aspiranti recensori di questo suo ultimo disco “Portami al Confine” (Squilibri 2020, € 15), con una densissima presentazione delle sue intenzioni poetiche. Righe fitte dell’urgenza di raccontare il suo progetto e che sono parte integrante di questo disco, una traccia vera e propria, quella da cui parte il viaggio poetico e sonoro (due dimensioni felicemente intrecciate in questo lavoro). Un viaggio in cerca di un confine probabilmente irraggiungibile e in ogni caso sempre cangiante, mobile, non profetizzabile; un viaggio senza forse un ritorno, perché nel bagaglio ci sono le cose che contano: le memorie e i sogni, le persone amate, i libri letti, le musiche ascoltate, le suggestioni, i fallimenti.
Senza ritorno perché non, è per fortuna, un viaggio in cerca delle proprie radici, ma è il percorso, rubando la metafora a Maurizio Bettini, di un fiume che, nel suo corso tendenzialmente infinito, raccoglie nel suo cammino detriti, acque di altri corsi, impurità di ogni tipo. Che assorbe il paesaggio e lo modifica. Nel bagaglio c’è Beckett, quello dell’ “Innominabile”, il libro che finisce con l’aforisma “Non posso andare avanti, andrò avanti”, c’è Emile Zola e il suo realismo, c’è la discesa nel cuore di tenebra, c’è la resistenza italiana e quella curda, c’è la storia con il suo peso di angosce e disumanità, c’è Pietro Gori (parafrasato in il povero Cristo, rilettura del mito del Gesù socialista), ci sono le antiche battaglie dei catari. C’è il Rovelli, poeta ma anche saggista, reporter e polemista. C’è, innominabile e irriducibile, l’individuo, il centro del cuore e la sua libertà dagli idoli, l’incessante dialettica del pieno esistenziale e del vuoto. Quello che colpisce è l’invito iniziale dell’autore a chi legge e ascolta: tu stesso devi portarmi al confine. È un gioco piacevole, quindi, aggiungere frammenti personali allo zaino dell’autore (Brecht, Camus, Borges…).
Il corredo per questo viaggio aspro e difficile è giustamente una musica pietrosa, con il termine rock che sta proprio a significare roccia. Il violoncello di Lara Vecoli racconta, con le sue aspre volute melodiche, le striature della pietra. Le chitarre elettriche di Paolo Monti, la batteria di Massimiliano Furia, il basso elettrico e l’elettronica di Rocco Marchi, la stessa voce di Rovelli scandiscono, con accenti spesso minimalistici, questo paesaggio scabro. “Del resto leggere Beckett, è come gustare, con il massimo godimento possibile, pietre - scrive Rovelli nelle sue note - …organico, inorganico, vita, morte, non c’è differenza Tutto sta in questo succhiare (pietre) senza fine, in questo infinito slittamento”. Ma un brano come “La Neve” riesce a sciogliersi in un’atmosfera rarefatta, quasi da haiku. “Portami al confine” è, insomma, un’opera di valore, che merita ascolti approfonditi; è un segmento robusto della linea di resistenza culturale che tanti individui, al di là delle diverse militanze e appartenenze, stanno cercando di approntare in vista di tempi sempre più bui. Raccontare il fallimento , l’asimmetria e l’imperfezione come basi dell’esistente, è tornare a parlare di vita reale, di scienza, di filosofia nella loro essenza più autentica. Farlo usando metriche piene di tensione e musica, di buona presa emotiva ma certo, ma tagliente e aspra, è un merito ancora maggiore. Il disco si chiude con la riproposizione dell’ultimo brano inciso da Claudio Lolli prima della sua morte, “La giacca” , nella quale suona anche Paolo Capodacqua. È un duetto, sovrinciso, fra il cantautore bolognese e Rovelli: è emozionante ma, francamente, aggiunge poco alla riuscita complessiva dell’album.