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28/07/2020

Recensione a Portami al confine di Giuseppe Provenzano su Extra Music Magazine

 

Marco Rovelli & L’InnominabilePortami al confine 2020 squi[libri]di Giuseppe Provenzano

“... quanto a me, io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”

Questa frase, che non smette mai di commuovermi e di farmi tremare ogni volta che mi capita di incontrarla, sta sulla seconda di copertina de “Le Nuvole”, ovviamente di Faber.

E’ una frase presa da una discussione che avvenne fra Samuel Bellamy ed il capitano di una nave da lui abbordata. E’ una frase che è puro fuoco, talmente potente ed incredibile da essere, appunto, commovente. Piaceva, evidentemente, molto a Faber, che ci vedeva dentro tutta l’essenza del suo essere anarchico.

Probabilmente sarà piaciuta anche a Paolo Finzi, compagno prima che direttore (forse questa parola gli piaceva un po’ meno) di A- Rivista Anarchica, che qualche giorno fa ha deciso di andarsene, quasi in silenzio (un silenzio che rimarrà, per forza di cose, assordante), con il gesto più lucido e più libertario che si possa fare: tenere fino all’ultimo il filo della propria vita.
A lui, ai suoi familiari, alle compagne ed ai compagni di A- Rivista Anarchica vanno il mio più caloroso abbraccio ed il mio più deciso pugno chiuso.

Questo articolo, che parlerà (anche) di anarchia, non poteva che iniziare con un ricordo commosso di un grande compagno. Articolo che, dicevamo, parlerà di anarchia. E non solo nell’introduzione. Anzi, ne parla già a cominciare dal protagonista del pezzo, quel Marco Rovelli ex voce dei Les Anarchistes che ormai quasi vent’anni fa ci regalarono una delle più belle testimonianze di musica resistente come “Figli di origine oscura”. Da allora Rovelli, artista a tutto tondo, oltre che insegnante e reporter, ha tirato fuori tre lavori solisti, tra i quali spicca “Bella una serpe con le spoglie d’oro”, omaggio meraviglioso alla grandezza di Caterina Bueno.

A due anni di distanza da quell’album, finalista alle Targhe Tenco ’18, Marco Rovelli pubblica un nuovo capitolo della sua avventura discografica da solista, “Portami al confine”, album in cui suona accompagnato da L’Innominabile, una specie di supergruppo di cui parleremo meglio fra qualche riga.

Portami al confine” è un concept (l’ho mai detto che quando ascolto concept parto già positivamente colpito, per caso?) che ha come tema, appunto, quello del confine, che sia esso politico, umano o relazionale. Ma c’è dentro un altro tema, che si snoda fra la copertina, il nome del gruppo ed una perla in coda al disco. Sulla copertina campeggia infatti, frutto dell’arte di Alfredo Jaar, un lapidario e potentissimo “I can’t go on, I will go on”, “Non posso andare avanti, andrò avanti”: sono le parole che chiudono “L’Innominabile”, ultimo capitolo (dopo “Molloy” e“Malone muore”) della Trilogia di Samuel Beckett. Essendo io un fan della scrittura circolare, l’ultimo rimando alla poetica beckettiana, che avrete capito essere l’altro tema del concept, lo scopriremo, nuovamente, qualche riga più in basso.

Insomma, sulla scia di quel “Non posso andare avanti, andrò avanti”, si apre il disco. E non poteva non farlo con “Beckett”, che è il titolo del primo brano. Pezzo molto cupo, con una oscura doppia trama di violoncello a reggere il tutto, fra un tappeto melodico sull’ottava bassa ed una parte solista, alternata ai contrappunti di chitarra distorta, che decolla sull’ottava alta durante lo strumentale di metà brano. Detonante è il ritornello “Ho sempre provato, ho sempre fallito, proverò ancora, fallirò ancora, fallirò meglio”, e molto bella è l’immagine della “scatola di sogni sparsi sull’asfalto”. A proposito del senso del pezzo, Marco scrive delle considerazioni fantastiche sul book dell’album, parlando dell’importanza del fallimento. E mi veniva da pensare a quella frase (bella in valori assoluti, per carità, ma diventata usurpatissimo slogan motivazionale), mi sembra di Mandela, quella che diceva qualcosa tipo “Io non perdo mai: o vinco o imparo”: l’ho sempre trovata una frase adattissima ai tamarri palestrati con il tatuaggio di Padre Pio in bella mostra sul bicipite e con un “Resilienza” a fare da corollario. Il “gioioso fallimento” di cui scrive Marco Rovelli mi ha definitivamente convinto della bontà delle mie impressioni a proposito di quella frase.

A “Beckett” segue “Cuore di tenebra”, quasi una “Cupe Vampe” che abbraccia tutti gli orrori della storia, dal Vietnam al massacro di Bezièrs durante la crociata contro i Catari. Una linea di basso martellante (Rocco Marchi, ex Mariposa) ed un bordone di violoncello poggiano su una batteria marziale, squarciata dalla chitarra elettrica nei ritornelli. Anche il cantato di Rovelli, quasi salmodiante, riporta alla mente Giovanni Lindo Ferretti, mentre gli effetti dell’elettronica finiscono di dare il tocco tempestoso ed incessante della guerra.

La domenica della vita” ed il confine dell’amore, di un amore intermittente e sul perenne filo da equilibrista, vissuto con piede sull’acceleratore, sono le naturali armi resistenti per combattere il “Cuore di tenebra”, in un pezzo che si presenta ruvido, anche grazie alle schitarrate caustiche di Paolo Monti. Belli i contrappunti di violoncello, che fanno sempre da elemento di imprevedibilità.

I buffi di cuore” è un pezzo fantastico, delicato, poetico e commovente. Una chitarra che regge tutto, un basso lontano e delicato ad accompagnare la voce, carica di sentimento, di Rovelli. Il testo sarebbe da inserire tutto, è davvero un gioiello, con dei passaggi di altissima poesia. “Viva i buffi di cuore
che non sono mai ben informati dei fatti ma sanno con certezza che l’aurora
tra le rovine si mostra a strappi
e viva loro che non hanno paura
di abitare in case sghembe e storte meglio una vita inquieta ed insicura
che quadrata e gelida come la morte”.
Il quinto brano dell’album è “Tempo rubato”, che si apre con un riff di violoncello, usato poi come chiusura di ogni ritornello. Basso marcatissimo, la chitarra elettrica che fa la ritmica sullo sfondo, mentre il violoncello ritorna con un ostinato ritmico fantastico. E’ un brano potente e politico, parla di sfruttamento sul lavoro, declinato in tutte le sue forme, e della lurida sporcizia del capitalismo. Molto belli i versi “Mani nere di fatica ma bianca è una morte
che per chi ha le mani nere viene per cattiva sorte
la cattiva sorte è un dono che gli dei del capitale
fanno a chi ha le mani bianche e sa che non è uguale.”, che fanno da contraltare a quegli “operai a pedale” citati nel primo verso.
C’è un meraviglioso clima “tenebroso” che permea tutto il lavoro, e che si esprime perfettamente in “Chiara dorme”, ruvidissima ballata dal sapore decadente, col violoncello di Lara Vecoli e la chitarra elettrica di Paolo Monti ad intrecciarsi e rincorrersi in un gioco di chiaroscuri musicali, mentre i vocalizzi salmodianti di Rovelli accentuano l’aria cupa, facendo diventare il brano un “canto che scorre e fluisce e inghiotte la notte, denso di sonno esonda, dilaga, è un’onda di suono”.
Nanà”, oltre a proseguire il fil rouge letterario (dal citato Beckett, passando per il Conrad di “Cuore di tenebra” e l’Emile Zola di, appunto, “Nanà”, che è uno dei capitoli della saga dei Rougon- Macart, e Nanà altri non è che la figlia dei protagonisti de “L’Ammazzatoio”, ndr) che è un altro dei temi del lavoro, è un vero e proprio pezzo di resistenza artistica, in cui si stigmatizza l’ “art for art’s sake”, giusto per rimanere in tema letterario, il ruolo dell’arte disinteressata e, soprattutto, incapace: Nanà è tutto quello che chi si occupa di arte dovrebbe cercare di evitare. E’ un pezzo quanto mai attuale, se vogliamo drammatico a causa della sua attualità. L’arte non è un sottofondo, l’arte deve distruggere, irrompere. Esattamente come fa questo pezzo, un vortice di suoni spigolosi, col violoncello sempre in risalto ed una batteria che è un tornado.
Povero Cristo” è uno dei pezzi più infuocati del disco, già dal punto di vista della struttura musicale, con un basso continuo a galoppare insieme alla batteria, e con i ricami di elettrica, violoncello ed effetti elettronici a dare dinamismo nelle parti dei ritornelli. E’ un pezzo infuocato anche nel testo, “Non sono io che una legge s’è inventato
io esistevo solo ed è per questo che m’han con- dannato
È un reato da punire
non aver nome ma una vita da salvare” è uno dei versi più interessanti, e conferma esattamente quanto detto.
Se ci trovassimo in una sceneggiatura da film noir/ horror, “La Neve” sarebbe un pezzo perfetto per una scena che, nella sceneggiatura, verrebbe pressappoco così: (interno, notte) - ruderi di un vecchio castello medievale nei pressi di un cimitero nella torbiera scozzese- da una breccia nel muro si intravede una sagoma solitaria, curva e col volto coperto, che si avvicina, in mano una lanterna, unica fonte di colore nel bianco e nero della scena. Fuori, lentamente, nevica. Lo zeitgeist del pezzo è esattamente quello lì: è incessante ed inquietante, al contempo poetico ed immaginifico. Pezzo sostenuto da un pianoforte che fa sentire il rumore dei tasti pesati, con un tappeto di elettronica e dei ricami di violoncello a caricare l’arrangiamento.
43” è un pezzo che è storia d’Italia, soprattutto di quella partigiana. La nebbia elettrica che cresce ed avvolge la canzone scandisce, esattamente come la campana che ogni tanto rintocca nel pezzo, la storia di Carlo Sfuzzi, unico superstite di una rappresaglia tedesca in cui morirono quarantadue partigiani. Lui era il quarantatreesimo. E’ una canzone, questa, fondamentale, soprattutto in quei periodi di buio nei quali la storia viene dimenticata, o peggio, evitata nel nome di una “inclusività” assurda e senza senso.
Fantastico è l’intro di piano elettrico di “Io ti scrivo”, soprattutto nella sinergia che crea con la chitarra elettrica e col violoncello, i cui interventi sono sempre incredibili. E’, questo, un pezzo con una fortissima carica immaginificamente erotica, in cui il superamento del confine coincide con l’approdo all’unica soluzione possibile per resistere ai “cuori di tenebra” di cui sopra.
Anche in “Il paese guasto” ci sono evidenti riferimenti alla sfera letteraria, al Thomas Stern Elliot di “Wasted Land”. E’ un sinuoso pezzo retto da un tappeto di violoncello e dagli interventi, spesso in levare, del piano elettrico, in una sorta di botta e risposta che si rincorre per quasi tutto il brano, mentre il ritornello in maggiore apre il brano. “Ma non c’è mica materia per far scandalo davvero è solo un’altra anestesia
un’altra capriola sul declivio del mistero:
ci si rotola e si cade, lentamente
dolcemente, inavvertitamente”.
Altro pezzo fondamentale per il nostro tempo è “Il muro di Idomeni”, che comincia con un disturbante sferragliare dei piatti e con delle dissonanze di violoncello. Idomeni è in Grecia ed è il confine, questa volta politico, che i migranti devono oltrepassare per intraprendere la rotta balcanica, quella che li porterà in Germania via Serbia e Macedonia. Da quando questi due stati hanno chiuso i rispettivi confini, Idomeni è diventato un campo profughi, sgomberato nel 2016. Da lì parte il racconto disperato di un profugo, ben rappresentato dalla prima strofa del pezzo: “risuona questa terra
di un solo tremito che mi scuote che mi confonde, trema la vista di un buio immenso che mi fa gridare contro il cielo
contro la terra contro quel mare che s’è scordato lui così ingrato di prendere anche me”.
Al confine” è l’unico pezzo dell’album dai colori più marcatamente acustici. E’ una commovente elegia funebre per i ragazzi della Federazione delle Associazioni Giovanili Socialiste rimasti uccisi in un attentato a Suruç, in Anatolia. “Benedetto sia chi lotta e ride di bellezza
che conserva dentro al pugno tutta la sua giovinezza che seppellirà quel dio bavoso e indemoniato
e non ci sarà che vento che la terra avrà liberato. Benedetti quei ragazzi che andavano al confine per oltrepassare i limiti di tutte le paure
per leggere il futuro, e donarlo ai loro eguali
e nonostante tutto sono loro gli immortali”.
A chiudere l’album c’è “La Giacca”. E c’è anche la chiusura dell’altro tema dell’album, quello di Beckett, autore tanto caro a Claudio Lolli, a sua volta autore di questa canzone incredibile, cantata, in questo caso, in duetto con Rovelli. E’, questa, l’ultima registrazione in studio della meravigliosa lepre pazza, che di lì a poco sarebbe saltata via. E non c’è molto altro da dire: quando un pezzo ti fa venire il groppo in gola e lo ascolti in religiosa concentrazione, con gli occhi chiusi per non far scappare le lacrime, che altro vuoi aggiungere?
A far da (ultimo) fil rouge di tutto il lavoro c’è la voce di Marco Rovelli, perfetta a livello interpretativo, salmodiante e densa a seconda delle occasioni. Rovelli, in breve, si conferma come la voce più rock fra quelle folk. O come la voce più folk fra quelle rock, fate voi, insomma.
E “Portami al confine” è uno di quegli album che si potrebbero definire “necessari”: ha un sacco di storie da raccontare, di messaggi da lanciare e di cose importanti da dire. E’ anarchico perché, con buona pace di chi ne criticava la durata, funziona maledettamente così com’è, nonostante si viva in un tempo che sconsiglierebbe trovate discografiche del genere, con una richiesta di attenzione così grande. Anche perché Marco le sue canzoni le racconta sul serio, nel book dell’album, che, come tutti i lavori editi da quel piccolo gioiello che è squi[libri], è esaustivo ed importante.
Il discorso di cui sopra è anche la conferma che Rovelli è un poeta di quelli veri.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata.”


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