E’ da poco uscito in libreria “Siamo noi a far ricca la terra”, un bel libro edito da minimum fax e scritto da Marco Rovelli – narratore, saggista e musicista toscano – dedicato a Claudio Lolli e ai suoi mondi. Il libro, racconta la vita del grande cantautore bolognese scomparso nel 2018 all’età di 68 anni, facendo parlare in prima persona gli amici e le persone che hanno accompagnato la sua intensa avventura umana. Un libro che si legge e si ascolta, avendo come sottofondo continuo il sax errante sguinzagliato da un capo all’altro di “Ho visto anche degli zingari felici”, il capolavoro assoluto di Claudio. E naturalmente, oltre agli “zingari”, scorrono nelle pagine una dopo l’altra le altre grandi canzoni di Claudio, da “Aspettando Godot” a “Borghesia”, da “Michel” ad “Anna di Francia”, da “Piazza bella piazza” fino a “Il grande freddo”, l’ultimo album che gli valse il tardivo riconoscimento di un Premio Tenco che non poté ritirare perché già gravemente malato. Il libro ripercorre la parabola umana di Claudio, partendo da quando, giovane curioso che si pone tante domande, vaga per Bologna con in una mano la sigaretta e nell’altra la Hasselblad con la quale fotografa la vita che gli scorre davanti. E intanto prende nota, guarda con occhio spietato all’ipocrisia della cultura piccolo borghese che respira in famiglia e dalla quale, con fatica, riesce finalmente a uscire. Ama i grandi jazzisti come Parker e Mingus e i cantautori più vecchi, come De André e Guccini, al quale viene presentato una sera all’osteria delle Dame e che subito lo prende a voler bene, incoraggiandolo nella sua nascente carriera. Tra l’osteria delle Dame e la trattoria da Vito, dove si consumano pantagrueliche mangiate (in realtà più da parte di Guccini che di Lolli) e ancor più sonore bevute (in questo caso i due vanno classificati a pari merito), Claudio comincia a muovere i primi passi di cantautore. Conosce personaggi illustri come Lucio Dalla, Roberto Roversi, Gianni Celati, Andrea Pazienza. Ma non solo loro. Claudio non fa distinzione tra “famosi” e “non famosi”, per lui conta solo il rapporto umano. Casa sua è un porto di mare che si riempie continuamente di gente. Claudio non ama stare da solo. Legge tantissimo, accumula libri, adora Leopardi, Montale, Pavese. Cominciano i primi concerti, le prime trasferte fuori Bologna, a bordo prima di un maggiolone e poi di una Citroen gialla (“lo squalo”) ereditata dal padre, che una volta rischia di venire fracassata dagli autonomi che rompono i finestrini e vogliono usarla per improvvisare una barricata. Claudio non se la prende più di tanto, del resto in quella atmosfera arroventata che si respira nella seconda metà degli anni ’70 lui si trova benissimo. Coltiva il grande sogno, la grande utopia rivoluzionaria di un nuovo ordine sociale, di una vita fatta per i bisogni e la felicità della gente. Ma con realismo e sempre avvertendo quel senso di inadeguatezza, che gli viene dalla cultura della sua generazione, fondamentalmente esistenzialista, come anche in De André e Guccini. L’utopia e i sogni si infrangono agli inizi degli anni ’80 con il vento neoliberista impersonato dalla Thatcher e da Reagan. Arriva la grande disillusione, il riflusso. Le strade sono ormai “disoccupate dai sogni”. Il movimento si frantuma in tanti cani sciolti, che con il passar del tempo diventano degli “extranei”. Disingannato ma non rinsavito, anche Claudio a modo suo si rifugia nel privato. Arriva il grande amore, Marina, la donna della sua vita, che sposa e dalla quale ha due figli, e arriva un lavoro “vero”, quello di professore di italiano e latino al liceo. Un lavoro nel quale dà il meglio di sé, stabilendo un profondo e autentico rapporto umano con i suoi studenti. Le canzoni ci sono ancora, e anche i libri che pubblica, così come l’impegno sociale, la rabbia politica, il dover constatare l’amara deriva della società italiana. Ma con un ruolo meno importante. Avvicinandosi alla fine dei suoi giorni, è l’amore quello che resta. Per Marina e per le persone umane fatte di carne, ossa, aspirazioni e speranze. In conclusione, il ritratto a tinte vivide che esce dal libro è di un Claudio Lolli diverso dallo stereotipo del cantautore triste e pessimista, che lo ingabbiò in vita. Al contrario Claudio appare come un uomo divertente, sincero, pieno di timidezza, di dolcezza e soprattutto di amore, che non separa mai il privato dal pubblico, ma lo fa in modo diverso rispetto alla cultura della sinistra rivoluzionaria degli anni ’70, per la quale il personale è sottoposto al dominio del politico. Claudio al contrario ribalta la prospettiva, partendo dai bisogni, dai desideri e dagli affetti della vita per farne la base dell’azione politica. Ed è questo uno dei significati più profondi che ci trasmette il libro di Marco Rovelli.