Marco Rovelli

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02/07/2021

Recensione a Siamo noi a far ricca la terra di Mattia Mantovani su La Provincia

 Non c’è niente come

il linguaggio, sosteneva uno
scettico utopista come Rilke,
per snaturare le parole e privarle
del loro autentico significato.
È un paradosso, ma come
tutti i paradossi esprime
una sostanziale verità: tra le
parole e la “realtà” che dovrebbe
corrispondere al loro
significato - ha scritto lo stesso
Rilke in alcuni celebri versi
dell’ottava elegia duinese -
c’è costantemente il “mondo”.
E il “mondo”, o comunque
lo si voglia definire, fatto
di proustiane intermittenze
del cuore, è sempre negazione,
sottrazione, tempo che
passiamo ma soprattutto
tempo che passa noi, ci trasforma
e deforma. Il “mondo”,
insomma, è morte, nelle
sue varie forme e declinazioni.
Cosa diceva del resto un
ammiratore di Proust come
Ennio Flaiano? Già la vita è
piuttosto volgare, nella migliore
delle ipotesi volgaruccia,
e per giunta viviamo in
tempi davvero prosaici, non
solo perché Albertine è
“scomparsa”, come recita il
titolo del sesto e penultimo
pannello della “Recherche”,
ma soprattutto perché a nessuno
viene più in mente di
andare a cercarla.
Il “memoriale” del “doppio”
Non deve quindi stupire che
una delle parole maggiormente
snaturate, ormai lontanissima
dalla sua valenza
originaria, sia la parola “utopia”,
che significa letteralmente
“nessun luogo” e sta
ad indicare la non accettazione
delle cose così come sono e
la proiezione verso un “altrove”
differente, migliore, più
umano. O meno disumano,
che coi tempi che corrono sarebbe
una grande conquista.
Nel gergo comune, infatti, i
termini “utopia” e “utopico”
indicano qualcosa di opposto
alla concretezza delle cose
reali e posseggono una connotazione
marcatamente negativa:
l’utopia come fuga
dalla “realtà”.
Non è così, ovviamente,
perché la fuga dalla “realtà”
può anche consistere nell’approdo
a dimensioni negate
quali la libertà e l’autodeterminazione,
mentre l’utopia
rimane malgrado tutto la
condizione imprescindibile
per una vita di progetto e speranza,
che in definitiva è
l’unica degna di essere vissuta.
La conseguenza è che a
nessuno viene più in mente di
andare a cercarla, un po’ come
la “Albertine disparue” di
Proust ricordata da Flaiano.
Ci sono tuttavia delle eccezioni,
come ad esempio il bellissimo
libro che uno scrittore
e musicista di spiccata sensibilità
come Marco Rovelli
ha dedicato al percorso umano
e poetico di Claudio Lolli,
il cantautore bolognese (ma
la definizione è riduttiva)
scomparso poco meno di tre
anni fa. È opportuno ricordare,
a questo proposito, il commosso
ricordo del suo “fratello
maggiore” nonché “maestrone”
Francesco Guccini,
che ha percorso il medesimo
cammino di speranze delusioni
e disillusioni: «Sono
stato molto amico di Claudio
Lolli, grande poeta, grandissimo
autore di canzoni, meglio
di me. Ha avuto solo la
sfortuna di non riuscire ad
accattivarsi il pubblico». Oppure
di non “volere”, si potrebbe
forse precisare. E la
differenza è sostanziale.
Il libro, pubblicato dalle
edizioni minimum fax, si intitola
“Siamo noi a far ricca la
terra - Romanzo di Claudio
Lolli e dei suoi mondi” ed è
appunto architettato come
un romanzo, perché ricostruisce
la biografia di Lolli uomo
e musicista seguendo un rigoroso
ordine cronologico e
basandosi sulle testimonianze
di chi lo ha conosciuto,
amato e apprezzato. Ma a
rendere il tutto ancora più
romanzesco, e per molti versi
piacevolmente straniante, c’è
anche l’espediente narrativo
del “doppio” e del “memoriale”,
vale a dire lo stesso Lolli,
immaginato da Rovelli, che
commenta e analizza “post
quem” i propri dischi e le circostanze
che li hanno prodotti.
Oltre la nostalgia
Si capisce quindi che non si
tratta di una dolciastra e nostalgica
rievocazione del
“temps perdu”. Molto semplicemente,
perché Lolli non
ne ha bisogno e rimane vivo
nella sua musica e nel cuore
dei “lolliani”, per i quali il suo
ricordo e la sua presenza, si
vorrebbe quasi dire la sostanza
del suo “esserci” proustiano
a prescindere dall’accidente
biologico della morte,
rimangono un punto di riferimento.
Come ha detto giustamente
il suo collaboratore e
compagno di mille avventure
musicali Paolo Capodacqua,
quando Lolli era ancora vivo:
«Lolli non esiste, è una proiezione
dell’immaginario di
tutti i lolliani, che hanno bisogno
di una figura come Lolli
».
Il libro di Rovelli si muove
precisamente nel solco di
questo paradosso, come se
Lolli davvero non esistesse,
anzi non fosse mai esistito, e
quindi fosse tanto più vivo e
presente in quanto immagine
ideale. Ma il volume possiede
in egual misura una funzione
divulgativa, perché spiega
Lolli ai “venuti dopo”, che
non hanno avuto la fortuna
(già, proprio la fortuna) di
condividerne speranze, utopie
e disillusioni.
Claudio Lolli, come emerge
molto bene anche dal “romanzo”
di Rovelli, ha segnato
a fondo soprattutto la parte
centrale degli anni Settanta
con la suite “Ho visto anche
degli zingari felici”, del 1976,
uno dei migliori dischi della
musica italiana e insieme un
prezioso documento storico,
perché le sue otto tracce restituiscono
una nitidissima
fotografia di quegli anni (gli
ultimi) di speranza, progetto
e utopia. Lo ha spiegato lo
stesso Lolli in occasione della
ristampa in versione CD nel
2006, fissando un fondamentale
principio poetologico e
conoscitivo: «L’intelligenza
logica che si salda a quella
emotiva: solo così si capisce il
mondo, si impara ad amarlo, a
non dimenticarlo mai e a capire
anche che se ne può fare
a meno per un mondo futuro,
migliore e possibile».
L’era del “grande freddo”
Questa sintesi di logica ed
emozione (ma Rovelli, molto
opportunamente, aggiunge
anche la malinconia) ha permesso
a Lolli di cogliere subito
i limiti e il conseguente fallimento
dell’utopia. Un anno
dopo “Ho visto anche degli
zingari felici”, nel 1977, mentre
per le strade della sua Bologna
i carri armati di una nazione
democratica soffocavano
nel sangue la contestazione
studentesca, uscì infatti
“Disoccupate le strade dai sogni”,
che raccontava quasi in
tempo reale la fine delle speranze
e l’inizio del riflusso.
Il disco fu un consapevole
suicidio dal punto di vista
commerciale. Non a caso, dopo
altri due dischi poco fortunati,
“Extranei” e “Antipatici
Antipodi”, Lolli ha cominciato
un’altra vita, molto lontana
lontana
dalla ribalta: ha fatto il
professore di italiano e latino
in un liceo nei pressi di Bologna,
ha scritto romanzi e racconti
e ha pubblicato dischi
per piccole etichette. Ne hanno
preso atto solo i “lolliani”,
e pochi altri. Ma il finale, tra
commozione e sorpresa, era
ancora tutto da scrivere.
Nel 2017, già minato dalla
malattia che di lì a un anno lo
avrebbe condotto alla morte,
Lolli ha infatti riunito i musicisti
degli “zingari felici” e ha
pubblicato un’opera di insidiosa
bellezza, “Il grande
freddo”, un disco di nove
tracce che ha restituito con la
medesima lucidità di un tempo,
ma da una nuova prospettiva,
la fine del sogno e ciò che
rimane: la residua libertà di
definire almeno «ciò che non
siamo, ciò che non vogliamo
», come dice la terza traccia,
“Non chiedere”, riprendendo
i versi di “Non chiederci
la parola” di Eugenio
Montale. Forse è l’estrema
utopia prima del baratro, sicuramente
è uno dei pochi
modi rimasti per conoscere
veramente il “mondo”. Albertine
è scomparsa, non la si
troverà mai, eppure la ricerca
è necessaria, se si vuole vivere
da umani in un mondo disumano.
È il messaggio che Claudio
Lolli - uomo musicista poeta -
ci fa idealmente e concretamente
pervenire, per il tramite
di Marco Rovelli, anche
dalle pagine di questo libro.

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