Marco Rovelli

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07/02/2023

Recensione a Soffro dunque siamo di Ugo Morelli su Doppiozero

 https://www.doppiozero.com/divenire-soffrendo

 

Davvero siamo in grado di mettere in discussione la realtà? Basta un trauma, anche planetario ed esteso nel tempo come la pandemia, per riuscirci? O prevalgono resistenze, difese e forza dell’abitudine, riportando le cose a come stavano prima? Marco Rovelli si avvale del “mi rivolto, dunque sono” di Albert Camus, per presentare un proprio percorso di analisi della nostra condizione attuale in Soffro dunque sono. Il disagio psichico nella società degli individui [minimum fax, Roma 2023]. L’ipotesi evidente è chiara: sta in quell’“in” privativo davanti alla parola “individuo”. L’inverno della nostra solitudine contemporanea, in questo tempo in cui c’è da andare singolari e deprivati di legame sociale incontro all’esistenza, è all’origine di forme articolate e diffuse di disagio psichico. Di quella corruzione generalizzata della condizione umana, con cui noi stessi pregiudichiamo la nostra vivibilità sul pianeta, fino ai deserti dei nostri mondi interiori.

L’individuo versus il “condividuo”, come Rovelli lo chiama con un neologismo su cui c’è da riflettere. Se gli antidepressivi rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica, e persino gli economisti si sono accorti che quella che viviamo difficilmente può essere definita una condizione di benessere, dal momento che siamo tutti più infelici, ciò dipende in buona misura dalla tendenza a trasformare la società in una moltitudine di individui soli e consumatori. C’è un’ontologia che domina la scena nell’epoca dell’iper-liberismo con evidenti tendenze totalitarie, ed è quella che esclude ogni possibile causa sociale dei problemi individuali e del disagio psichico.

Vengono in mente i leitmotiv dei Chicago Boys e di Milton Friedmann: nessun pasto è gratis e se non ce la fai è solo colpa tua. Si tratta di criteri ormai accreditati fino al punto da divenire senso comune. Quei criteri fanno del merito il principio di distribuzione di riferimento. Una blasfemia per chi considera la giustizia sociale quale orientamento per le scelte, come è il caso della Costituzione italiana. Secondo i criteri del merito, invece, ciascuno sta laddove merita di stare e le regole della convivenza sono quelle che si accordano a questo principio. A essere negata qui è la natura intersoggettiva e relazionale della nostra esperienza.

Come scrive Rovelli: “Si tratta di uscire da ogni forma di riduzionismo, e focalizzarsi sui punti di intersezione tra individuo e società: sulla natura relazionale dell’umano”. È solo per questa via che entra in campo la sofferenza e la possibilità di riconoscerne le potenzialità e i vincoli. È la sofferenza, infatti, a connotarsi come sintomo di un processo complesso che assurge a senso per noi, che ci riguarda e che occorre comprendere, accogliendo le sue potenzialità trasformatrici. Proprio quella sofferenza Rovelli si propone di attraversare nel libro, cercando non tanto e solo di analizzarla, ma di darle voce. Propone perciò una costellazione di parole chiave per comprenderne le manifestazioni in questo nostro tempo.

Disagi psichici, uso eccessivo di psicofarmaci, lavoro precario o stati di ansia e di eccessiva incertezza, scorrono nella galleria delle storie che Rovelli costruisce e presentano una mappa del disagio psichico che si estende sulla contemporaneità come un velo grigio di fatiche esistenziali e mal di vivere. A partire da questa rassegna Rovelli si chiede se la concezione del disagio psichico, così come proposta e praticata dal modello organicista dominante, sia l’unica possibile. La sua analisi critica giunge a proporsi di “comprendere il disagio psichico, nelle sue varie forme, come un sintomo sociale, e specificamente come un sintomo della ‘società degli individui’”. 

Qui il libro si trasforma in un teatro di pensieri convocati a esprimere, con una pluralità di voci, le molteplici possibili letture del disagio psichico come sintomo e fattore analizzatore della società in cui viviamo. A estendere la riflessione sul rapporto tra disagio psichico e società della prestazione si scopre che la dirompenza del disagio psichico è tanto più elevata là dove è più diffuso il virus del “capitalismo egoista”, ovvero quello basato sulla ristrutturazione in senso radicalmente neoliberista e individualista delle società in cui regna l’imperativo della performance. Il neoliberalismo, rimodellando le regole dello spazio sociale, ha ridefinito le relazioni umane.

La società diviene sempre più flessibile, le diseguaglianze crescono, e in chi gode di livelli di reddito e di status inferiori questo approfondisce le frustrazioni e demolisce l’autostima. La competizione e la precarietà sono ovunque. La società in cui viviamo non si regge più sulla contrapposizione tra permesso/vietato, ma tra possibile/impossibile. Tutto è possibile: Just do it. E se ti è impossibile, se non ce la fai, la responsabilità è solo tua. Al variare così pervasivo della forma delle relazioni sociali si trasforma anche il modello di interpretazione del disagio psichico. Scrive Rovelli: “Nella società disciplinare – come la chiamava Foucault – il modello del disagio psichico era il conflitto nevrotico legato al senso di colpa: si sconta l’angoscia provocata dalla trasgressione di un divieto, di un interdetto. Nella società post-disciplinare, il modello del disagio psichico è quello del depresso: il depresso è l’uomo in panne, privo di energia, risucchiato da un buco nero in cui niente è possibile.

La depressione è una patologia dell’azione che si lega alla disi-stima di sé e al complesso di inferiorità. Il depresso è bloccato da un senso di impotenza: le norme sociali ti impongono di fare – e tu non sei capace. Non sei all’altezza delle immagini di te che il mondo ti propone. Tutto è possibile, ma realizzarlo dipende da te. E se non lo realizzi, sei solo tu il responsabile. Non è più questione di trasgressione di un interdetto, ma di una mancanza di cui ci vergogniamo, di un’insufficienza che ci mette di fronte al nostro vuoto. Non è più questione di colpa, legata alla legge che vieta, ma di vergogna, legata al profilo sociale. Il fallimento, allora, è lo spettro che infesta la tua psiche. Fallire, non essere all’altezza.

Le frustrazioni sono insopportabili per un Io che è stato sovrainvestito di attese, di aspettative”. (…) “Il «tu puoi» (che è un «tu devi», l’imperativo categorico della società della performance) si rovescia in un «tu non puoi», in un radicale senso di impotenza che ti soverchia”. Quando la richiesta della società si fa troppo pressante e incontra le fragilità personali, si smonta l'impalcatura immaginaria sulla quale erano state costruite le false aspettative e il rischio più importante è quello dello svelarsi, dietro le quinte, dell'inconsistenza di ciascuno. Non ci sarebbe niente da vergognarsi perché in quanto umani siamo fallibili, ma la questione fondamentale riguarda proprio la vergogna, che da un lato mostriamo di non essere più in grado di vivere e sperimentare, ma dall'altro interviene ogni volta che lo scarto tra le aspettative eccessive e l'effettiva realtà presenta il conto.

Emerge in questo modo l'ansia sociale, che è transgenerazionale ed è alla base della maggior parte dei fenomeni clinici di evitamento che sono così diffusi nel nostro tempo. Rovelli richiama la più diffusa delle definizioni di questo stato d'animo così diffuso: le patologie del desiderio, derivanti principalmente dai modi in cui l'ideologia delle performance si incarna nella soggettività e nell'esperienza. È impressionante il numero degli studiosi e degli osservatori attenti e partecipi della situazione contemporanea che Marco Rovelli convoca nel suo libro per approfondire le questioni che gli stanno a cuore. Tra questi é certamente degno di nota il contributo dialogico di Nicole Janigro. Le dinamiche di una società fondata sul dogma della performance come norma indicano la presenza di una guerra permanente di cui tutti in un modo o nell’altro, anche i vincenti, sono vittime.

A prevalere è una condizione di bipolarità tra manie e depressione, con una costante prevalenza dell’illimitato. Se ci sono una parola e un’esperienza che non hanno cittadinanza in questo tempo e nelle esperienze delle persone sono la parola e l’esperienza del limite. Il conflitto tra la dimensione immaginaria, ideale, e le pulsioni del soggetto è divenuto pervasivo e genera una costante fatica di vivere, sia per chi partecipa al gioco che per chi cerca di chiamarsi fuori. Tra prestazione e Io-crazia si snodano le storie personali che Rovelli valorizza come casi idealtipici della nostra umana condizione nel tempo dell’indifferenza e della crisi del legame sociale. “L’individuo contemporaneo è, proprio come venne descritto, concentrato sulla propria immagine, bisognoso di ammirazione, ansiosamente proteso a «essere sé stesso», preda della vergogna a fronte di un fallimento”. Il disturbo narcisistico di personalità risulta uno dei più diffusi ed è un indicatore tra i più rilevanti dei disagi psichici della contemporaneità. 

Se è Narciso e non Edipo a dominare le nostre scene interiori, come sostiene da tempo Gustavo Pietropolli Charmet, questa condizione non sembra riguardare non più soltanto gli adolescenti, ma è divenuta pervasiva e coinvolge l'esperienza di tutti no. Siamo nella condizione di un costante bisogno di riconoscimento che si è amplificato a dismisura e il bisogno di ammirazione somiglia sempre più a un piacere che si ricava dallo star nella vetrina virtuale dove ciò che conta non è essere ma esserci. Un esserci che è apparire. Da tempo Luigi Pagliarani aveva parlato di “noi adultescenti”, coniando un neologismo che mostra di avere una certa rilevanza nel descrivere la nostra condizione psico-sociale contemporanea. Si rileva una trama particolarmente fitta, secondo Rovelli, tra il narcisismo e la società della prestazione e ne costituisce un aspetto intrinseco è fondamentale.

A pagare il prezzo più alto di questa situazione così articolata e impegnativa sono principalmente le giovani generazioni. Una società evidentemente bloccata si presenta come una continua produzione di gap tra le aspettative individuali, le capacità e le opportunità effettivamente disponibili. Non può che derivarne un senso di scoramento conseguente allo sforzo inesausto del desiderio che però manca infallibilmente il suo oggetto, fino alla caduta del desiderio stesso, a rinchiudersi in sé, tagliando definitivamente ogni legame col mondo e con l'altro, un altro che già era stato ridotto a oggetto dagli imperativi della società del successo individuale. Da qui le patologie strettamente connesse al rapporto tra soggettività e socialità come l'anoressia, la bulimia e una diffusa ritualità sociale che assume le caratteristiche di strategie riparatorie.

A emergere come particolarmente problematiche sono le carenze delle situazioni di intermediazione e di contenimento, nel gruppo e nella famiglia, mostrano di riuscire a svolgere le funzioni che hanno svolto tradizionalmente e che hanno impedito di chiudersi nella propria caverna per far fronte allo smisurato sentimento di inadeguatezza e di fallimento che prende davanti allo spettro dello sguardo altrui. Da qui le esperienze diffuse di attacchi di panico che costituiscono a tutti gli effetti un indice significativo del disagio contemporaneo, laddove questo disagio tende a uno scioglimento dei vincoli, alla liberazione delle individualità dai legami imposti dalla ritualità sociale. Si tratta però di una falsa liberazione, in quanto basata su una presunzione di poter prescindere dalla soggettività e dalla socialità come proprietà costitutive di ogni individuazione possibile.

Scrive Rovelli: “L’esposizione al mondo come radice degli attacchi di panico sta del resto nella stessa etimologia del termine: Pan – il dio metà uomo e metà capra, che vive nei luoghi selvaggi, nelle foreste, e produce terrore nel viandante, il dio che genera gli incubi che svegliano dal sonno – venne generato da una donna in una foresta. La madre, quando vide la sua natura mostruosa, fuggì terrorizzata lasciandolo nella foresta. Pan, dunque, crebbe solo, esposto al mondo, senza la mediazione né di una madre né di un rifugio possibile. Il terrore, che Pan sarà destinato a replicare generandolo negli uomini, è strettamente connesso alla solitudine”.

La condizione che si configura può essere definita borderline nel senso che si tratta di uno stato mentale caratterizzato da una profonda instabilità emozionale, e che tiene nell'instabilità non solo chi vive in prima persona quella condizione, ma anche coloro che gli stanno intorno, familiari, clinici e operatori. C'è una specificità in questa condizione ed è il terreno proprio in cui si esprime, cioè la relazione con gli altri. Ne deriva che i disagi psichici contemporanei dipendano principalmente da una crisi di legame che è uno dei tratti fondamentali e distintivi, caratterizzanti, della nostra contemporaneità.

Se l’epoca contemporanea ha queste caratteristiche, essa è basata sulla ricerca di un piacere scisso dalla relazione e dall'incontro con l'altro come tale, come ci ricorda da tempo il filosofo Slavoj ?i?ek. Quella in cui viviamo è una società del godimento, cioè una società nella quale il desiderio non è più desiderio dell'altro ma si pone come un'affermazione narcisistica dell'io ideale che ha messo in discussione o reciso ogni legame con l'altro. Se del resto il desiderio viene identificato con il consumare, diventa per sua stessa natura insoddisfacente in quanto aumenta e si dilata a fronte di una costante mancanza di appagamento. Non solo ma il desiderio che assuma queste caratteristiche porta con sé un lato in ombra in cui le illusioni generate sembrano sfumare e implodere riconducendo alla responsabilità individuale tutto ciò che non si riesce a realizzare.

La breve storia degli psicofarmaci che Rovelli introduce nel libro, accanto a una riflessione sulla diagnosi e sulle capacità diagnostiche, apre alla riflessione sulla rilevanza della relazione come strategia di cura. La ricerca di senso e significato che distingue e caratterizza l'esperienza umana è riconosciuta come condizione stessa del prendersi cura e, sia le esperienze che le riflessioni concettuali che aprono la strada a un approfondimento sui temi della psichiatria biomedica, mettono in evidenza da un punto di vista critico quali potrebbero essere alcune delle caratteristiche distintive di buone pratiche psichiatriche e di efficaci e opportune strategie di cura per far fronte ai disagi psichici contemporanei. Si tratta insomma, secondo Rovelli, di reintegrare la psiche contro la controriforma della liberazione derivante dalla svolta che portò all'antipsichiatria, alla chiusura dei manicomi e al riconoscimento delle interdipendenze tra biologia ed esperienza nell’emergere del disagio psichico.

Vale la pena, da ultimo, ascoltare direttamente il sentimento di Marco Rovelli, espresso in poche righe alla fine del lungo viaggio e dei tanti incontri che sono alla base di questo libro: “La fine di un viaggio che prima di tutto è stato il mio viaggio di conoscenza. È la fine, ma non ci può essere una conclusione vera, perché questo libro – che ha cercato di mettere a fuoco la grande questione inumana della nostra epoca, ossia che l’essere umano ha una natura relazionale, mentre noi ci siamo abituati a concepirci come individui isolati – vuole essere uno strumento a disposizione di un lungo processo, quello di una liberazione collettiva”. 

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