Marco Rovelli

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03/02/2023

Intervento di Marco Focchi in margine a Soffro dunque siamo

 https://www.marcofocchi.com/il-buon-uso-dellinconscio/february-10th-2023

 
 
Intervento tenuto il 3 febbraio 2023 in occasione della presentazione del libro di Marco Rovelli, Soffro dunque siamo, Edizioni minimum fax, Roma 2023.
 
Marco Focchi
 
 
Il libro di Marco Rovelli Soffro dunque siamo è innanzi tutto fatto di storie. Quando Marco è venuto da me, nel tempo in cui stava raccogliendo il materiale per il suo lavoro, mi ha chiesto delle storie da inserire nel suo libro. Se sono stato avaro con lui è stato senz’altro per eccesso di cautela. Nella misura infatti in cui una storia di vita è un caso clinico, diventa anche un serbatoio di dati sensibili sui quali la censura istituzionale ha gli occhi ben aperti ed è attenta e vigile. Ma il punto è proprio questo: una storia di vita è un caso clinico? Il libro di Marco è rivolto proprio a contestare questa assunzione, a negare l'idea cioè che una storia di vita sia un caso clinico, e che le difficoltà presentate da chi viene a consultare uno psicoterapeuta o uno psicoanalista costituiscano materiale di un caso clinico presentando questioni da affrontare da un punto di vista medico.
 
 
 
La nevrosi non è un problema medico
 
 
D’altra parte: da dove viene il fatto che le persone che si rivolgono a noi ci raggiungano spesso a partire da un invio medico? O che descrivano le loro difficoltà come disturbi da cui semplicemente vogliono guarire? E ancora che formulino il loro auspicio di tornare allo status quo ante, augurandosi di ottenere quella restitutio ad integrum che è la definizione medica della guarigione?
Possiamo forse immaginare che tutto questo venga dal fatto che Freud era medico e ha cominciato la sua pratica per risolvere, nelle isteriche del suo tempo, problemi che mettevano in scacco la medicina? Certo, questo è un aspetto, ma è un aspetto appartenente alla preistoria della psicoanalisi, sul quale per altro Freud stesso non ha mai insistito. Sono note le sue battaglie a favore dell’analisi laica, cioè condotta dai non medici. Freud per primo non considerava le difficoltà della nevrosi come un problema medico, e proprio lui aveva abbattuto il bastione che separa la normalità dalla malattia, o dalla follia. Lacan non ha fatto che spingere ulteriormente le cose in questa direzione, tanto che il prossimo Congresso mondiale della nostra associazione, nell’aprile del 2024 avrà come titolo: Tout le monde est fou, ovvero tutti sono pazzi. Tout le monde est fou è una frase di Lacan, il quale considerava che la pazzia non è privilegio di pochi.
 
 
E la guarigione?
 
 
Se ci spostiamo dall’ottica medica, cosa significala la guarigione di cui si parla in psicoterapia,? Chiaramente questa nozione cambia completamente segno. Lasciamo da parte la bizantina, arzigogolata, ridondante classificazione dei disturbi mentali presentata dal DSM e prendiamo la semplice e schematica classificazione freudiana: isteria, nevrosi ossessiva, fobia, psicosi. Dobbiamo forse guarire il soggetto isterico dall’isteria? O l’ossessivo dalla nevrosi ossessiva? Bisogna considerare che queste cosiddette nevrosi rappresentano ciascuna una particolare struttura di desiderio. L’isteria è il desiderio perennemente insoddisfatto, la nevrosi ossessiva è il desiderio bloccato, labirintico, la fobia è un desiderio prevenuto, la psicosi, possiamo dire, un desiderio alla deriva. Si tratta quindi in queste strutture di riconoscere e liberare il desiderio piuttosto che di correggere o di emendare un disturbo.
Lacan va ancora più a fondo in questa direzione: quando parliamo di sintomo, dice, ci riferiamo a una modalità di godimento mascherata, che si manifesta nel disagio e nella sofferenza, e si tratta, più che di sopprimere il sintomo, di farlo parlare per separarlo dalla sofferenza.
 
 
Cosa fa oggi la dignità di una disciplina…
 
 
Non sono quindi, come vediamo, l’eredità freudiana o la tradizione psicoanalitica a determinare il carattere medico delle problematiche mentali. È piuttosto, possiamo dire, una cultura che man mano si è imposta. In senso lato è la cultura dell’individualismo, certo, quella nata con le società liberali ed estremizzatosi con il neo-liberismo degli ultimi quarant’anni.
Più specificatamente però possiamo considerare il bisogno del riconoscimento sociale che ha indotto le associazioni psicoanalitiche tradizionali a mettersi sotto l’ala del prestigio medico. In Italia in particolare, a partire dal 1989 c’è stata anche una spinta che ha indotto a mettere tutte le psicoterapie sotto il blasone uniformante della psicologia. Questa, allo stato attuale dei fatti, ha per altro recentemente ottenuto il riconoscimento di professione sanitaria. Da ciò deriva un effetto collaterale pesante,  che consiste nell’incastrare le psicoterapie, in tutte le loro forme, nella quadrettatura dello statuto scientifico.
 
 
… se non la scienza!
 
 
Anche il primo Lacan pensava a uno statuto di scienza per la psicoanalisi, al tempo della sua prima navigazione strutturalista. Statuto scientifico significava però, in questo caso, semplicemente statuto di un rigore concettuale all’altezza della sua pratica. Quando invece spingiamo l’esercizio psicoterapeutico verso il gemellaggio con la medicina, statuto scientifico significa statuto concettualmente adeguato alle scienze naturali.
Bisogna dire, d’altra parte, che neppure la medicina è venuta al mondo come scienza naturale. Lo è diventata con Claude Bernard che, nato in piena epoca positivista, ha voluto farne una scienza positiva.
Se ci mettiamo nella prospettiva di fare della psicoterapia un ramo delle scienze positive, come si tenta di fare ora, cosa otteniamo? Otteniamo semplicemente la figlia di un dio minore, dove il dio maggiore è la psichiatria.
 
 
Le pratiche di liberazione non hanno tuttavia bisogno del marchio della scienza
 
 
Il libro di Marco è anche una critica radicale della psichiatria istituzionale contemporanea come pratica di cura e, accanto a questo, esplora dettagliatamente le pratiche psichiatriche di liberazione esplose dopo il fenomeno Basaglia con l’esperienza di Trieste, pratiche che mettono al centro la persona e non la malattia, che ascoltano il soggetto anziché classificare i sintomi. Il fatto di prestare ascolto alle persone senza giudicarle o classificarle, è ormai acquisito che sia qualcosa che porta beneficio. Ma c’è un altro aspetto, forse più pregnante, e che si correla con la ricerca di storie da parte di Marco: ogni storia ruota intorno a un punto incandescente di verità che non è in nessun modo riconducibile alle pratiche evidence-based. Sullo sfondo di ogni narrazione di caso clinico si staglia la lacerazione di una scelta etica, si vede il soggetto costituirsi dilaniato, in una divisione. Quel che Freud chiamava trauma – e che ci ha dato una rigogliosa produzione hollywoodiana, a partire da Marnie di Hitchcock – è la ferita che nel soggetto si apre, e rimane aperta, nel suo momento costitutivo, insieme alla perdita che lo accompagna. Ora: è chiaro come il sole che questo tipo di verità non può essere indagata in termini scientifici, in termine di corrispondenza con i fatti, perché una scelta – nel senso radicale in cui la prendiamo qui, ciò di scelta che costituisce il soggetto e non che parte da un soggetto già costituito – non è un fatto, è un atto.
La psicoanalisi è quindi una pratica di liberazione che mette al centro il soggetto e il suo desiderio.
 
 
La casa brucia!
 
 
E la psichiatria? Prendiamola nella sua rappresentazione più istituzionale. Bisogna spostarsi negli Stati Uniti, dove nascono tutti gli orientamenti che danno poi il la a quel che succede anche in Europa. Prendiamola anche nella figura di Thomas Insel, uno dei suoi rappresentanti più istituzionali, essendo stato dal 2002 al 2015 il responsabile del NIMH, National Institue for Mental Health, l’Istituto statunitense che si occupa della salute mentale.
Thomas Insel ha una formazione da psichiatra e da neuro-scienziato, crede nella causalità biologica delle problematiche mentali e nel DSM, e ha fiducia nei lenti progressi della scienza, che nel giro di qualche decennio porteranno a risolvere tutti i quesiti che ora ci poniamo. Quando Insel lascia il suo incarico pubblico inizia un’attività privata e imprenditoriale, e continua a dare conferenze in giro per l’America. Un imprenditore naturalmente ha bisogno di risultati abbastanza immediati e visibili per vendere i suoi prodotti. Nelle sue conferenze, quando vanta i grandi progressi che ci aspettiamo per gli anni a venire dagli studi sulla genetica e sull’epigenetica, trova qualcuno che gli dice: “Dottore, lei non ha capito. Io ho un figlio di ventiquattro anni schizofrenico che ha perso il lavoro, è completamente allo sbando e ha tentato il suicidio. Io ho la casa che brucia e lei mi parla della chimica dell’intonaco!”
 
 
Il fenotipo digitale
 
Thomas Insel è un uomo che non manca d’immaginazione, e si rende subito conto che bisogna rispondere ai bisogni e ai quesiti che la gente porta. Comincia allora a pensare: “Incendio? Certo in questi casi si chiamano i pompieri, ma solo quando le fiamme già divampano. Bisogna prevenire gli incendi. Come si fa? Bisogna avere degli allarmi antincendio. Non possiamo aspettare tutto il tempo in cui i sintomi della malattia mentale si manifestano e diventano riconoscibili con i criteri del DSM, perché in questo caso le fiamme hanno già invaso tutto. Dobbiamo prevenire. Ma cosa corrisponde all’allarme antincendio nel caso della malattia mentale?” E qui viene la straordinaria risposta: l’allarme antincendio lo abbiamo già tutti in tasca, sono i nostri smartphone! Gli smartphone sono miniere d’informazioni sulle persone che lo posseggono, e raccolgono una varietà di dati e di comportamenti che, in base a determinati criteri, possono essere predittivi di un’insorgenza di problematiche mentali. Dobbiamo quindi mobilitarci in questo senso, lo si può fare anche attraverso le comunità social! Gli smartphone contengono le impronte digitali elettroniche della persona che lo ha in tasca, e attraverso esse si può creare quel che definiamo come un fenotipo digitale. Non ci servono più i criteri del DSM, che arrivano anni e anni dopo che i problemi hanno cominciato a formarsi. Il fenotipo digitale ci avverte non appena le persone cominciano ad avere seri problemi mentali, e questo ci consente di intervenire molto più rapidamente.
Credo si possano capire subito i grossi problemi che si profilano in questa strategia d’intervento: il primo è quello della necessità di una sorveglianza elettronica che viola la riservatezza delle persone. Il secondo è ancora peggiore, perché l’intervento previsto è semplicemente farmacologico. Si rischia quindi di imbottire di psicofarmaci persone, anche giovani e adolescenti, che stanno benissimo, solo perché alcuni segni considerati anomali in base a criteri di normalità assolutamente ideologici, fanno capolino nei loro smartphone.
 
 
Non sempre la prevenzione è la cosa migliore
 
Ci si sposta da un modello diagnosi e cura a uno predizione e prevenzione, che nel campo delle problematiche mentali è quanto di più pericoloso si possa immaginare. L’dea che quanto prima individuiamo il problema tanto più efficace sarà la soluzione vale sicuramente per i problemi oncologici, cardiaci, ossei, ma nelle problematiche mentali ci possono essere equilibri che si mantengono senza esordio per tutta la vita, e che interventi invasivi e inopportuni rischiano di far esplodere portando il soggetto alla cronicità.
Per Thomas Insel non possiamo permetterci aspettare decenni per acquisire le conoscenze che ci permetteranno di intervenire, e dobbiamo usare quel che sappiamo ora e quel che sappiamo ora ci giunge attraverso un preciso mezzo: lo smartphone.
 
 
Le tre P
 
 
Thomas Insel è però una persona che non si siede sugli allori. Dopo alcuni anni dà un’occhiata alle statistiche e vede che i grandi progressi della ricerca in medicina hanno enormemente ridotto i decessi per problemi oncologici o cardiaci. Sulle percentuali relative ai suicidi la brutta sorpresa è che invece sono triplicate. Cosa succede allora? Forse non disponiamo di diagnosi adeguate per i problemi mentali? O non abbiamo le cure appropriate? O non investiamo abbastanza? Analizza tutti questi aspetti e non sembrano esserci risposte decisive. Si confronta allora con un collega che gli accende una luce: no, caro Thomas, gli dice, il problema con le malattie mentali non è nella direzione in cui stai guardando, è piuttosto quello delle tre P. Quali sono le tre P, pensa Insel? Prozac? Promazina? Paliperidone? No, le tre P sono People, Place, Purpose. People perché conta la comunità che una persona ha intorno, che può dargli sostegno, empatia, che può accorgersi se è in difficolta. Place perché non è la stessa cosa se uno vive in una zona borghese, con tutti i servizi e con i denari per procurarseli, o se invece vive in un quartiere periferico, isolato, mal frequentato. Purpose perché se vuoi che uno non si suicidi devi dargli uno scopo nella vita.
Con questa illuminazione Thomas Insel si rende conto che non verremo mai a capo delle problematiche mentali se non faremo attenzione ai fattori ambientali e relazionali.
 
 
Il problema è medico ma la soluzione non è medica
 
 
La sua conclusione tuttavia è: “Non voglio per un solo istante dire che si tratta di respingere il modello medico nel trattamento dei disturbi mentali. Dobbiamo tenere ben presente infatti che questi sono disturbi del cervello e che sono problemi medici. Dobbiamo definire il problema come medico e dobbiamo aspettarci lo stesso tipo di sicurezza, lo stesso tipo di verifiche, lo stesso tipo di rigore e di standard di cure che in qualsiasi altro campo della medicina Ma la soluzione deve essere qualcosa di più. La soluzione non può essere solo medica. Deve essere sociale, ambientale e politica. Non so se questo valga anche per altre aree di intervento medico, ma qui, finché non implichiamo questi altri aspetti, non facciamo nessun progresso. Dobbiamo ridefinire quel che intendiamo con cura, Il problema è medico, ma la soluzione non è medica.” Il che è come dire: un’equazione di secondo grado è un problema matematico, ma la soluzione la troviamo ne La fenomenologia dello Spirito.
Thomas Insel non è impantanato in una sola prospettiva. Nella sua carriera ha mostrato una certa mobilità e curiosità e un certo spirito da indagatore. Riesce benissimo a cogliere l’aspetto relazionale, sociale e politico della problematiche mentali, ma non è in grado di staccarsi dall’idea che in ultima istanza, quando la conoscenza avrà fatto i passi necessari, saremo ricondotti alla biochimica del cervello. Insel è comunque uno scienziato aperto, disponibile a dare almeno una sbirciata fuori dal perimetro della biochimica cerebrale.
 
 
Il modello animale per lo studio dell’umano
 
 
Il suo successore alla direzione del NIMH è Joshua Gordon. Con lui ci troviamo di fronte a uno psichiatra completamente immobilizzato sul paradigma delle neuro-scienze considerate come toccasana di tutti i problemi psichiatrici. Pur rendendosi conto della complessità del problema diagnostico per le malattie mentali, dove molti piani si sovrappongono e intrecciano, della mancanza di marcatori biologici, giacché non ci sono raggi x per la psicosi, e dell’inadeguatezza dei trattamenti disponibili, almeno quelli disponibili nel suo orizzonte mentale, Joshua Gordon è un uomo di laboratorio che studia attentamente la biochimica del cervello, e fa sofisticati esperimenti per cogliere che non tutti i neuroni sono attivi in ogni momento. Se, come chiaramente spesso si vede, i sintomi dei disturbi mentali si sovrappongono tra loro e diverse diagnosi si accumulano e si intrecciano spesso in contrasto tra loro, bisogna domandarsi come mai. Il problema è forse – s’interroga – che tante persone hanno diverse parti disfunzionali del cervello? No – si risponde – è che non facciamo bene le diagnosi. Il problema dell’assurdità di alcune diagnosi è sta infatti nella mancanza di comprensione delle condizioni cerebrali.
Naturalmente si rende conto che anche sui trattamenti ci sono problemi: con gli antidepressivi a massima potenza il 30% dei pazienti non reagisce, e quand’anche reagisce torna in trattamento perché ci sono comunque ricadute.
Di fronte a questa disfatta su tutto il fronte Joshua Gordon non perde il proprio aplomb, e considera che ci sono tuttavia delle opportunità. La prima consiste nel capire il rischio genetico. Se precedentemente si cercava la responsabilità della schizofrenia in un gene, oggi siamo molto più avanti, e gli sembra uno straordinario progresso che, alla luce della ricerca attuale, si possa oggi  considerare che sono 108 i geni a cui si può attribuire qualche responsabilità nella schizofrenia. Come il passaggio da 1 a 108 cause possibili appaia un chiarimento più che una nebulosa polverizzazione è qualcosa che sembra difficile spiegare, e in effetti Joshua Gordon non si dà pena di portare qualsivoglia chiarimento su questo problema.
L’altra grande opportunità è che siamo in grado di visualizzare il cervello degli animali con la prospettiva di agire sui circuiti neuronali. È un approccio che ci fa capire la complessità del cervello e ci profila la possibilità di imbrigliarla. Con quel che sappiamo oggi, grazie all’approccio alla complessità del cervello si possono introdurre molecole per attivare o disattivare neuroni. Questi esperimenti sono stati fatti con successo su delle cavie Se riusciamo a scoprire quali sono i neuroni che in uno schizofrenico causano le allucinazioni, allora eureka!, potremmo spegnerli e avremmo partita vinta. Gordon è assolutamente immune all’idea che, diversamente dalle cavie, l’uomo parla, anche se questa differenza è tutt’altro che trascurabile!
 
 
L’inesauribile capacità evasiva della libertà
 
 
Vediamo dunque che la psicoanalisi e la psichiatria – negli anni Cinquanta spesso unite, quando una specializzazione in psichiatria era completata da una formazione psicoanalitica – hanno imboccato strade divergenti man mano che la psichiatria ha preso il cammino della biochimica del cervello e la psicoanalisi, non lasciandosi contaminare dall’ideologia dell’adattamento, ha battuto la via di una pratica di liberazione del soggetto, trovandosi così più vicina alla psichiatria di matrice basagliana la cui attualità residua è ampiamente esplorata nel libro di Marco Rovelli.
Sullo sfondo resta il problema di un pensiero unico del nostro tempo, quello che vede una convalida di na pratica solo quando sia piega alle richieste di un’epistemologia di matrice scientifica. E per quanto la scienza sia una delle conquiste più smaglianti della nostra modernità occidentale, non è tuttavia una forma di pensiero che possa applicarsi a tutto, e non si attaglia in particolare a quelle che Freud, a suo tempo, ha definito come discipline impossibili: l’insegnamento, la politica, la psicoanalisi. Non a caso sono tutte e tre pratiche che implicano la soggettività. In questo senso la forte valenza politica attualmente della psicoanalisi è di essere un bastione che resiste all’erosione dello spazio della soggettività, che mantiene il soggetto come soggetto di una scelta e non succube di un determinismo cieco. La prospettiva politica della psicoanalisi entra in contrasto con l’imperialismo di una visione del mondo che assorbe tutto nel vortice della pura necessità, dove solo la connessione causa-effetto funziona come spiegazione valida per tutto, e la libertà diventa un fantasma sempre più evanescente, fino a far sfumare la figura umana nel confronto con un’intelligenza artificiale semplice figlia di un algoritmo, ma armata di una potenza di calcolo incommensurabile. Dobbiamo davvero spaventarci del braccio di ferro tra la potenza schiacciante del calcolo e l’inesauribile capacità evasiva della libertà?

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