Marco Rovelli

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28/11/2023

Recensione a Concerto d'amore di Massimo Giuliani su FreeZone

 https://www.giannizuretti.com/articoli/marco-rovelli-paolo-monti-concerto-damore/

 

Sette anni con un progetto in testa, sette anni passati a scegliere canzoni, a registrarle, a coinvolgere colleghi. Sette anni ma con lentezza, ché nel frattempo ne son successe di cose. Per dire solo le ultime, del Marco Rovelli saggista abbiamo parlato di recente, e da poco è uscito anche Nella notte ci guidano le stelle, album sulla Resistenza che ce lo mostra come capace organizzatore e assemblatore di talenti. E Paolo Monti, nei suoi diversi progetti e nelle sue varie incarnazioni (Bosco Sacro, Star Pillow…), ha scritto altri capitoli della sua avventura visionaria post rock fra noise, elettronica e improvvisazione.

 

Due personalità artistiche così diverse eppure nel corso del tempo così vicine hanno messo insieme quattordici canzoni più o meno popolari (del “più o meno” vi dirò poi), trovando un modo originale di evitare sia la riproposizione filologica che una qualunque forma di riattualizzazione. Un modo in cui quelle voci, quei dialetti, che pure identificano temporalmente e geograficamente le parole cantate, disegnano su quei fondali sonori quasi astratti una bellezza senza tempo. Fondali sonori su cui talvolta si poggiano le chitarre, acustiche o elettriche, coi loro arpeggi morbidi o coi bassi profondi filtrati attraverso la pedaliera sapiente di Monti, soprattutto dal tremolo. Canzone dopo canzone, quei fondali costituiscono un paesaggio che invita l’ascoltatore, più che a soffermarsi sulle singole canzoni, ad abbandonarsi ai cinquantasette minuti di una musica che ci appare fuori dal tempo e che pure parla di momenti e di storie ben situati, che dice qualcosa del qui ed ora mentre ti invita in un altrove, che fluisce calda eppure per niente consolatoria. Che si offre eterea eppure coi piedi piantati nella realtà, in quell’equilibrio originale che costituisce la firma riconoscibile di Paolo Monti.

 

Conoscendo il peso che nella formazione di Marco Rovelli ha avuto Caterina Bueno, è bello che l’album si apra con “Rispetti”, dal repertorio della cantante etnomusicologa di Fiesole. Quasi un pendent con il CD che Rovelli le dedicò nel 2018: lì la canzone del titolo, “Bella una serpe con le spoglie d’oro”, anch’essa all’inizio, era costruita sulla medesima linea melodica di “Rispetti”. Cose che capitano nella musica di tradizione orale.

È utile segnalare che l’album offre anche un paio di spunti per la conoscenza di altre due grandi artiste, la siciliana Rosa Balistreri e Maria Teresa Cau, protagonista del “canto a chitarra” sardo.

 

Quattordici canzoni d’amore, dunque, che vengono dai repertori popolari (più o meno, dicevo) dalla Toscana in giù. Non si va più a nord ma, dicono le note del cd, niente di personale: è andata così e basta. Però ci sono canzoni che, spiega Rovelli, si possono considerare apolidi: non vengono da qualche repertorio regionale e hanno autori con nomi e cognomi. C’è “Quante stelle in cielo con la luna” di Lucilla Galeazzi, ma soprattutto ci sono due capitoli che nel cuore di chi li conosce stanno accanto ai canti anarchici di dominio pubblico, come “Già allo sguardo” di Carlo Vita e Ugo Titta e come “Amore ribelle” di Pietro Gori. E poi c’è (per dire ancora come in questa materia i confini siano tutt’altro che netti) un frammento di Napoli, precisamente di quell’area di mezzo in cui la canzone popolare napoletana sfuma nella canzone classica d’autore: lì si potrebbe collocare “La nova gelosia” (qualcuno la conosce dalla versione di Roberto Murolo, qualcun altro da Fabrizio De André), che classifichiamo come popolare perché dell’autore non ci è nota l’identità. Qui Rovelli la canta insieme a nientedimeno che Fausta Vetere, su una chitarra twangy che per un attimo mi ha dato l’illusione olfattiva di aromi tex mex (no, vabbè, sto esagerando). Ad ogni modo bellissima.

 

A un drappello di ospiti è affidata la varietà di colori che increspa la morbida continuità di quei fondali. Duettano alla voce con Marco Rovelli, oltre a Fausta Vetere di cui si è detto, Mara Redeghieri, Angela Baraldi, la cantautrice Erica Boschiero, Serena Altavilla dei Blue Willa, Paola Rovai. E fra le chitarre di Paolo Monti spuntano anche quelle di Lee Ranaldo dei Sonic Youth (eh già!), che è fantastico per come si cala nel progetto, e di Bruno Dorella. E poi Cesare Basile al baglamàs, Nicola Alesini al sax soprano, Rocco Marchi all’armonica e Lara Vecoli al violoncello.

 

Una vena politica corre lungo tutto l’album, a volte più esplicita (“Se tu vuoi fanciulla cara / Noi lassù combatteremo / E nel dì che vinceremo / Braccio e cor ti donerò”), ma sempre rintracciabile soprattutto nella cura e nell’amore per quell’altrove e per quel qui ed ora. Anche perché spesso questi versi cantano l’amore sullo sfondo di storie di lavoro e migrazione, basti citare la canzone forse più nota del mazzo, “Maremma”: “Sempre mi trema ‘l cor quando ci vai / Perché ho paura che non torni mai”, giacché la Maremma era terra di transumanza ma anche di paludi e malaria.

 

Spero che tutte queste parole aiutino chi non l’ha ancor ascoltato a incuriosirsi, ma certo le peculiarità di un album così le rivela soltanto un ascolto disponibile. Fate silenzio intorno, mettete le cuffie e lasciatevi attraversare da queste canzoni e da questi suoni. È davvero una bella esperienza. 

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