Marco Rovelli

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04/02/2010

Recensione a L'inappartenenza

Alla ricerca di un altro ritmo

(Recensione di Giuseppe Panella al libro di poesie L'inappartenenza)

su La Poesia e Lo Spirito (lapoesiaelospirito.wordpress.com)

Dopo tre formidabili reportages sull’anomalia giuridica e la barbarie italiana (Lager Italiani, Milano, Rizzoli, 2006; Lavorare uccide, Milano, Rizzoli, 2008 e Servi, Milano, Feltrinelli, 2009), Marco Rovelli ritorna alla poesia dopo il 2004 di Corpo esposto (il suo primo libro di poesie pubblicato dall’editore Memoranda di Massa). In quella straziata raccolta di versi e di affermazioni di principio forti e condivisibili, a un certo punto, con piglio severo e apertamente rimbaldiano, aveva dichiarato:

 

«Reclamo la mia inappartenenza. / il barbaro richiamo senza terra / l’accoglienza al vento che devasta / e libera presenza / l’occhio rivoltato al poi / il corpo abbandonato al suo deserto. / Reclamo l’odio senza oggetto / l’amore che ne stilla senza colpa / il furore che abita il silenzio. / Reclamo la parola / la sua notte. / La mia riconoscenza»

Lo aveva cantato con un’esplosione di rabbia e di voluttà negativa del tutto riconoscibili. E a quell’Inappartenenza torna ora con piglio canoro rinnovato, raddoppiando il testo poetico con quello musicale. Al libro è, infatti, allegato un interessante CD di interventi musicali di Rovelli con canzoni scritte in collaborazione con altri scrittori (tra tutti spiccano Erri De Luca, Roberto Saviano e Maurizio Maggiani) e musicisti di vaglia (Yo Yo Mundi, Daniele Sepe) in una sintesi collettiva di voci e di ritmi scanditi dalla comune appartenenza (questa sì) poetica.

Già il titolo, allusivo ma netto nella sua precisione, riconduce ad una posizione di partenza che non conosce possibili e future “uscite di sicurezza” o escamotage ideologici. Si tratta di un’inappartenenza, non di un rifiuto o di uno scarto che sarà possibile successivamente rimarcare o saldare con un gesto di riconciliazione. Chi non appartiene a qualcosa si pone con nettezza da tutt’altra parte – dalla parte dei “disertori”, dei “fucilati alla schiena”, dei reprobi, degli esiliati, dei senza casta e di chi fa della propria appartenenza di classe una questione d’orgoglio:

«Noi sbandati / disertori / fucilati alla schiena. // Noi miscredenti / d’immensa fede. // Noi del sangue che sorregge il cielo» (le pagine del volumetto sono – credo volutamente – non numerate).

A parte il ricordo della splendida canzone di Boris Vian dedicata all’elogio del Diserteur (uno dei testi ispiratori delle produzioni canore di Rovelli), è molto forte in questi lacerti di verso l’idea della separatezza, dell’estraneità alla cultura dominante e della prevalenza del sentire umano contro la fredda meccanicità degli apparati e del Potere onnipotente ma cieco e ottuso.

Ma dove Rovelli mette le carte in tavola e rivela il suo disegno teorico-alternativo è in un lungo testo misto di poesia e prosa con approfondimento teorico che merita di citare sia pure solo in parte:

«L’uomo diviene sempre altro. L’uomo è l’animale che differisce di continuo da se stesso (Georges Bataille).

 

Senz’altri. Il servo desidera morire / di alito di terra e luce fioca / sotto pelle, piedi inabili alla fuga / veste troppo resistente / cera sorda e muta // Solo si denuda il servo / al verso della frusta / che nomina e consuma // Il servo ha sete di bruciare / vive solo / inginocchiato al proprio altare.

Servo è chi non rischia la vita. Così l’antropologia filosofica di Hegel. Servo è chi non si espone all’ek-stasis, chi non si dispone all’altezza della morte. Solo all’altezza della morte si è liberi. Solo all’altezza della morte si è umani. Solo all’altezza della morte si è vivi. Servo, qui, non si oppone a padrone. Servo si oppone a libero. Il servo non si affranca (non si emancipa: resta mancipio). E non si affranca, non si fa libero, perché resta nel sempreuguale dell’impensato. Nei confini del già articolato. Servo è chi non si espone al suo esser-altro. Je est un autre, così Rimbaud alla lettera. L’Io non è che l’impossibile lavoro del negativo. Esso si fa nella misura in cui dilegua. Farne positività conchiusa, rinserrata in sé – questo è la morte dell’Io. Affermare l’Io significa farlo morire. Essere liberi, e vivi, significa dischiudere l’Io, aprirlo, esporlo al con, alla pluralità senza fine della moltitudine degli esseri singolari.

Oggi. Italia 2009, oggi qui è pieno di servi, servi dell’Identità…».

Quella riproposta da Rovelli è certamente una rinnovata dialettica Servo/Padrone coniugata bataillianamente nell’individuare nella morte (e nell’essere-per-la-morte come disponibilità assoluta al sacrificio del sé) il confine della libertà. Non più, quindi, la condanna-alla-libertà come era in Sartre ma libertà come condanna definitiva del presente (come in Genet, ad es., o nei surrealisti) o libertà in quanto possibilità di disseminazione e di produzione che prolifera al di fuori dei suoi confini ontologici (Derrida).

Ma, per tornare alla sua poesia, questo testo teorico illumina, in maniera netta e decisa, la potenzialità presente nella sua scrittura. La poesia, per Rovelli, non vuole essere, infatti, pura proposta di sensazioni o di emozioni personali ma connubio fecondo tra idee e suoni, tra sollecitazioni verbali e incitamenti appassionati alla costruzione di un senso nuovo da dare alla capacità di comunicare attraverso la voce poetica umana. Ne è testimonianza questo testo dalla sezione CORPO SUONO:

«Suono impasto poroso di brecce ed appigli / palla dentata a diamanti / traccia tortura / sangue vinoso per strada ad limina Imperii / al bosco ferrato di notte / spalancamento di voce / risucchio risuono rantolo a terra / un canto di meno / di più al trapasso / un dono a nessuno / da niente. // Suono. / Non suono. / Non c’è più suono».

Il sono è, per Rovelli, la natura stessa del verso – scrivere significa produrre oltre ai segni i fonemi che li designano e vi attingono forza e potere persuasivo. Il suono è la sorgente del ritmo poetico e oscilla, di conseguenza, tra il nulla del silenzio e il silenzio dell’appagamento raggiunto. Se il suo “impasto poroso” costituisce le stratificazioni di senso nei quali si ritrova, dunque, e se, aggirandosi nel “bosco” dei versi da costruire, se ne ritrova la possibilità di rappresentazione possibile, si potrà raggiungere quella dimensione di epifania del reale che rende il suono capace di andare al di là di se stesso.

Il silenzio segue così naturalmente il suono e lo scavalca come soglia della verità della parola.

«Il canto è contagio / forma fluente / riso, allarme / di un silenzio innocente / Il canto è anarchia / gesto distruttore / incanto, armonia / senza inizio né dolore / Il canto è puntato / ha la testa nel mirino / iniziano le danze / che scorra il sangue, il vino…» – si legge nel testo-canzone che chiude il libro.

Il sangue, il vino, la poesia: pratiche di liberazione e di provocazione, punti di partenza per una nuova stagione di scrittura, desiderio di bellezza e di armonia che il tempo presente non può più concedere a nessuno e che da tutti dovrebbe, invece, essere raggiunto come “domenica della vita”.

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