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31/01/2010

Recensione a libertAria su Musikbox di Francesca Matteoni

Recensione a libertAria su Musikbox

di Francesca Matteoni

Cominciamo dal titolo. Il primo CD di Marco Rovelli (scrittore civile, insegnante di filosofia, cantore e musicista), LibertAria, richiama alla mente Il Libertario, settimanale anarchico pubblicato in Italia ai primi del secolo scorso. E libertarismo è originariamente un sinonimo di anarchismo, la speranza in una società priva di discriminazioni e di modelli coercitivi che asfissiano l’individuo prima ancora che possa dirsi. Ma LibertAria, declinato al femminile, è anche aria libera, spirito fertile che nutre [una disperata vitalità], la capacità di vedere il mondo e se stessi e trovarsi perciò in rivolta. La voce limpida e tesissima di Marco si muove dall’onda primigenia, struggente del canto popolare - due in questo senso sono gli omaggi: le cover de Lamento per la morte di Pasolini e il canto anarchico Sante Caserio con la band di Daniele Sepe -, alle distorsioni del rock, che per antitesi e stridore sottolineano l’atmosfera dolorosa, ma non arresa di certe canzoni, come nel caso di Intimità, nata da una riscrittura di un testo di Erri De Luca per il bombardamento di Belgrado da parte della Nato nel 1999 e rivissuto da Marco ai giorni di Genova nel luglio 2001. [Quando cresce il pericolo, aumenta pure tutto ciò che salva], dice il ritornello della canzone, citando un verso di Hölderlin, e prosegue [E mi sono salvato con la contraerea dei poeti], e sembra in realtà questo il sottofondo di tutte le canzoni, dove il linguaggio attinge costantemente dalla poesia, per tentare una catarsi nel fuoco di questa nostra epoca, indossando la pelle del [tempo che non c’è], come recita un altro testo - una visione non allineata di resistenza e fraternità. L’io che attraversa la musica del disco è soprattutto un corpo. Colpa e salvezza stanno in questo corpo contingente, luogo esposto in cui si determina la Storia, e possibile altrove della presa di coscienza e dell’autodeterminazione del singolo.
Corpo come [campo di battaglia] di Gloria brucia, canzone dove il personale ed il politico si fondono nella figura di un’amante, irraggiungibile eppure vicina (lo sottolineano i versi di Samuel Beckett e di Amelia Rosselli), che diventa anche la donna spossessata di se stessa, fatta oggetto di un potere mediatico, che spettacolarizza e condanna le naturali, individuali, propensioni dell’essere.
Corpo come [un cerchio che non ha circonferenza,/ un cerchio con il centro in ogni dove], prendendo i versi de La mia parte ispirata a Il coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani e con lui scritta. Una carne fatta di passato, della ribellione e il sangue della Comune di Parigi in pieno illuminismo, che emerge in una forma d’amore combattente, [suono dei liberi e rumore di corpi vivi] ne La Comunarda, canzone di apertura scritta a due mani con Francesco Forlani. O il corpo alla macchia della guerriglia partigiana, dei disertori del potere costituito e dei suoi eserciti, di Sbandati, suonata con gli Yo Yo Mundi; il corpo comune dei senza diritto, dove tutti siamo senza diritti se questi sono negati a uno solo, della frenetica Indiana, scritta con Wu Ming 2 e accompagnata dal sax di Daniele Sepe. Ancora, il corpo svilito di chi non lavora per vivere, ma per il lavoro soccombe, ne Il dio dei denari, il dio veterotestamentario, l’angelo sterminatore che qui imprime il sigillo mortale della Produzione, a decretare la disuguaglianza dei deboli rispetto ai padroni. Canzone, questa, distonica, che enfatizza il suo intrinseco paradosso tragico, e nasce dalle ricerche di Marco per i suoi libri, dai colloqui con le donne rimaste a scontare un’assenza. L’attività di scrittore e instancabile testimone è anche il terreno de Il campo, canzone veloce, isterica, che esibisce il corpo riarso, recluso degli immigrati, dei clandestini imprigionati nei CPT di una terra longeva, che a nessuno può appartenere, ma su cui i popoli si ostinano a tracciare confini effimeri. Terra che è pure quella del nostro Sud, come un corpo di rifiuti, incementato, e poi scoperchiato nel vero, di L’odore del mondo, testo scaturito da Gomorra di Roberto Saviano, la cui musica è uno specchio distorcente di Briganti se more, canto del meridione di lotta e di rabbia, poco distante dai versi non assolti di Mea Culpa, tra canto e recitato, dove si anima un Céline livoroso per l’asservimento dell’uomo e la sua negazione: il corpo tagliente del singolo che non accetta, reclama nella bella poesia-manifesto a conclusione, la sua in appartenenza. O, in due diversi momenti estatici, il corpo comunitario, ebbro di festa di Al vino, scritta ancora con Francesco Forlani, e quello quasi panico, di Del bosco, splendido testo in prosa, che termina con la filastrocca sfacciatamente urlata, liberatoria, gioiosa di una voce bambina. Su tutto è il fuoco della distruzione totale, che annienta il sembiante dell’altro, il fuoco appiccato ai campi rom della canzone più bella in assoluto dell’album: quella Girotondo, di chitarra e violoncello, dove le strofe procedono avvolgendosi l’una nell’altra fin quasi a sovrapporsi, e sembrano in comunione con l’altro Girotondo di bambini soli e impazziti sul mondo devastato, cantato dal De Andrè di Tutti morimmo a stento. È proprio, in questa “irredimibilità del tutto”, questo cullarsi a fiamme nell’oblio, che possiamo essere salvi, [iniziare, dunque, ancora una volta].
Essere non più di un incendio minuscolo nell’universo, che dimentica se stesso e si rigenera.

Uscito su Musikbox n. 42 di gen 2010

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