Recensione a Servi di Luca Onesti su direfarescrivere
«Clandestino è una parola “viva” – è quella parola che serve a designare un mondo indistinto, il mondo dell’ombra appunto, degli “uomini neri”»; ed è all’interno, nelle profondità di questo mondo, che ci conduce Marco Rovelli, scrittore, insegnante e musicista, con il suo ultimo libro, Servi. Il Paese sommerso dei clandestini al lavoro(Feltrinelli, Serie bianca, pp. 224, € 15,00). Dopo Lager italiani(Rizzoli, 2006), un reportage narrativo sui Centri di permanenza temporanea (Cpt), e Lavorare uccide (Rizzoli, 2008), dedicato alle morti sul lavoro, il libro si pone a chiusura di un’ideale trilogia. Clandestino – scrive l’autore – «è una parola offensiva, squalificante», che nello stesso tempo, però, ci dice una verità: «c’è un soggetto negato, che rivendica un’esistenza prima ancora che il diritto».
“L’avanguardia” italiana
L’Italia è il paese industrializzato che ricorre maggiormente al lavoro nero. La concorrenza globale si affronta con l’abbattimento dei costi del lavoro e con la flessibilità. È così, ci spiega l’autore, che l’Italia ha assunto un ruolo d’avanguardia nella produzione di clandestini: le leggi sull’immigrazione servono appunto a questo, la clandestinità è quasi programmata a tavolino, è il pozzo senza fondo dal quale attingere forza muscolare a basso prezzo. Forza muscolare e non lavoratori, perché un clandestino è facilmente ricattabile, lo si può addirittura non pagare senza correre rischi. Molte delle storie dei braccianti agricoli che si susseguono in tutta la prima parte del libro (A Sud) raccontano di giornate, o intere settimane di lavoro non pagate. E accade spesso anche nei cantieri edili, altro settore in cui è preponderante la forza lavoro degli immigrati, la maggior parte dei quali non in regola. «La schiavitù è un attributo della clandestinità. Un clandestino è sempre, potenzialmente, schiavo».
La legge “Bossi-Fini” prevede che gli stranieri possano entrare in Italia solo se hanno già un contratto di lavoro, ma è estremamente difficile trovare un datore di lavoro che faccia delle assunzioni a scatola chiusa, senza sapere chi è il lavoratore, senza conoscerlo. «Questo legittima di fatto l’uso di lavoro clandestino. I flussi annuali di ingresso di persone che in teoria dovrebbero essere all’estero riguardano invece persone che già stanno in Italia e che stanno già lavorando in nero, clandestinamente. Quando invece si arriva in Italia, caso eccezionale, con un contratto già in tasca, è possibile che sia una frode». Costa molto entrare in Italia da irregolari, e c’è sempre chi è pronto ad approfittare del bisogno degli altri. Nel libro di Rovelli s’intrecciano le storie dei viaggi verso l’Italia: c’è chi per venire nel nostro paese vende tutto ciò che ha e si indebita irrimediabilmente. I primi anni di lavoro diventano quindi una difficile lotta per pagare i debiti, per inviare le rimesse alle famiglie, per fuggire dalla polizia e dalla detenzione nei Cpt – che ora, riflette l’autore, per un gioco di prestigio delle parole si chiamano Cie, (Centri di identificazione ed espulsione), ma la sostanza non cambia – per evitare le espulsioni.
L’esempio storico dell’Eritrea
Il libro si compone di una grande diversità di approcci dal punto di vista dei contenuti, a cui fa da contrappunto una ancor più ampia varietà dal punto di vista dello stile. Innanzitutto il resoconto di viaggio e la ricostruzione giornalistica: l’autore ha compiuto una lunga e attenta “inchiesta sul campo”. Poi gli importanti innesti saggistici: l’indagine sociologica è condotta con particolare acume, così come le analisi giuridiche sulla legislazione italiana in tema di immigrazione (una delle più repressive e restrittive in Europa), che, unite alle considerazioni di carattere economico, ci forniscono un’interpretazione particolarmente lucida. Un ruolo fondamentale è dato alla ricostruzione storica dei fenomeni migratori, nella loro dimensione di «evento epocale, di cui occorre, semplicemente, prendere atto, e di cui è illusorio pensare di cambiare il segno». Ad esempio, sono particolarmente interessanti, a proposito dei riferimenti storici, le riflessioni riguardanti la storia coloniale dell’Italia in Eritrea e l’attuale immigrazione proveniente da questo paese (cap. 21, Semiclandestini, eritrei in Italia). Oggi, chi fugge dall’Eritrea fugge da una guerra, diserta il servizio militare obbligatorio del regime dittatoriale di Afewerki; dovrebbe essergli concesso lo statusdi rifugiato, ma nel nostro paese, dove finora non è ancora stata fatta una legge sul diritto d’asilo, le cose si complicano. Sono molti infatti gli eritrei in Italia che vivono, con un permesso umanitario a breve scadenza, «in un limbo tra regolarità e irregolarità». «Sono creature di soglia». Eppure, aggiunge l’autore: «lo straniero eritreo è da considerarsi allo stesso tempo interno, “parte integrante della stessa nazione italica”, la quale è coinvolta profondamente nella storia nazionale dello stato eritreo».
Un racconto di voci “all’unisono”
Suggestivi sono anche gli spunti narrativi. Le voci dal vivo dei protagonisti (molti si raccontano in prima persona e frequente è l’uso del discorso indiretto libero) si alternano ai racconti di immaginazione. Questa scelta però ha un preciso ruolo di ricostruzione: è lo stratificarsi, il condensarsi dei racconti che l’autore ha sentito e delle cose che ha visto nei suoi viaggi. Ne è un esempio il capitolo 5, L’oroscopo di Vlad, la storia di due ragazzi rumeni: i loro sogni alimentati dalla tv satellitare, la partenza dal villaggio di campagna in cui sono nati, gli alloggi precari dove vivono e i lavori che svolgono una volta arrivati in Italia. Avvicinare questi temi attraverso il racconto letterario ha un valore insostituibile: raccontare una storia vuol dire appropriarsi di un’esperienza immergendosi nei suoi contesti; fare cioè, di una storia apparentemente lontana, la “propria” storia.
Ad ogni capitolo viene precisata l’indicazione geografica: le storie raccontate punteggiano l’Italia da nord a sud. La dimensione della coralità, in questo caso dei luoghi, si aggiunge così a quella delle voci. È questo il filo rosso dell’intero libro di Rovelli: l’espressione di più punti di vista, di una realtà poliedrica; l’insieme di esperienze e di vissuti che si compongono in un intreccio, nel quale si stempera la figura del narratore. È esplicito il rifiuto di un’etica vittimistica. Bisogna «non essere l’Uomo bianco e buono che si china sulle vittime, quelle vittime che si offrono a buon mercato alla pietà del salvatore», ma farsi piuttosto attraversare dal coro delle loro voci, secondo la concezione etica del filosofo francese Alain Badiou. Scrive Marco Rovelli, riflettendo come chi ha vissuto un’esperienza che possiede le caratteristiche di un lungo viaggio: «si tratta di raccontare, insieme alle storie che incontro, il mio sguardo attraversato da esse, raccontare il suo trapasso, le sue modificazioni».
Luca Onesti
(direfarescrivere, anno VII, n. 62, febbraio, 2011)