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09/09/2012 Recensione di Alberto Prunetti a Il contro in testa su Carmilla
(www.carmillaonline.com) Di Marco Rovelli avevo già apprezzato due libri che considero tra le cose migliori che ho letto negli ultimi anni nel campo della saggistica italiana, per la profondità umana della scrittura e la sensibilità politica, ovvero Lager italiani e Lavorare uccide. Il primo è un’indagine che riesce a dare la parola ai migranti costretti nei centri democratici di detenzione che punteggiano la nostra penisola; il secondo racconta, con un meccanismo narrativo simile, le storie di alcuni lavoratori vittime di un genocidio che si compie ogni giorno in un paese in cui il lavoro è descritto come un diritto costituzionale. Questa nuova pubblicazione di Rovelli segna apparentemente un cambio di registro, perché non è dedicata a una categoria di subalterni ma a un territorio. Eppure la continuità con l’opera precedente di Rovelli è forte, per la radicalità politica e per la coralità della forma enunciativa scelta. Il tema ispiratore del “Il contro in testa” è l’Apuania, la terra di montagna su cui l’autore è cresciuto. E ancora una volta le pagine di Rovelli mi hanno scaldato il cuore. Un doppio legame lo lega a quelle montagne al confine tra Toscana e Liguria: la fuga e l’attrazione, e questo zoom prospettico gli permette di mettere a fuoco le tante storie che su quello sperone di marmo bianco continuano a fiorire nel segno della durezza della pietra, refrattaria a ogni accomodamento verso l’autorità. Storie di cavatori e di anarchici, di cui ancora ricordo quell’accento forte, col fiocco libertario al collo davanti alla libreria carrarina; storie di osterie e di partigiani, del bianco del marmo e di quello del lardo di Colonnata, delle canzoni di Pietro Gori; delle pecore nere massesi (di cui discettai una sera proprio con Marco) e di un cavallaio che dalle Apuane è arrivato in sella fino al Tibet, per riscoprire una mobilità diversa. Un libro ribelle, corale, scritto con mille mani, dietro a mille storie, a cui Rovelli offre la propria penna come cassa di risonanza. Un libro che si legge come si beveva un tempo un gottino in un’osteria di Carrara: tutto d’un fiato.
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