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25/08/2012 Recensione di Giulio Milani a Il contro in testa su minima et moralia
(www.minimaetmoralia.org) Le due città di Giulio Milani Scrive Junger che le montagne generano negli abitanti della pianura due tipi di atteggiamenti molto distanti fra loro: la modesta tranquillità di chi si sente protetto e vive nascosto, e insieme l’ambiziosa inquietudine di chi si vede prigioniero e scorge nella vetta l’ostacolo da superare, a ogni costo. Sentimenti polarizzati, propri di chi è nato in mezzo agli estremi, e che trovano una loro composizione (epica, e narrativa) nella figura dell’«Anarca», del Grande Solitario. «Che poi l’ho sempre detto, per salvarti da un posto così o te ne vai presto o emigri internamente, trovando rifugio nei boschi, lathe biosas, vivi nascosto.» Come si legge ritroviamo la stessa duplicità, ma qui per così dire “raddoppiata” dall’estendersi del mare davanti a «scogliere di marmo» alte duemila metri, nel libro di Marco Rovelli “Il contro in testa. Gente di marmo e d’anarchia” edito nella collana Contromano di Laterza. Bipolarità, e insieme refrattarietà di identità e di appartenenze, quasi a comporre una sorta di «geologia della psiche umana» (per citare ancora Junger) fatta di doppi e di fantasmi stratificati. Le città “gemelle” di Massa e di Carrara, in particolare quest’ultima, sono note in Italia e non solo per l’estrazione del marmo bianco cosiddetto «statuario» – impiegato, tra gli altri, da Michelangelo – e per il sindacalismo e l’attivismo anarchico “eroico” di matrice ottocentesca. Esiste un nesso, ci spiega l’autore, tra il marmo e l’anarchia, e tra questi rapporti e giorni nostri. «A Carrara le cave erano – e sarebbero – di tutti, così come storicamente fu anche per le terre sulle montagne massesi, con l’uso del compascuo, la proprietà comune dei pascoli e degli alpeggi. […] Dal 1751 in poi furono le leggi degli Estensi a regolamentare le concessioni. L’accaparramento privatistico degli usi civici (le usurpazioni, come le leggi stesse le chiamavano) continuò imperterrito, per due secoli e mezzo. Tanto più dalla metà dell’Ottocento in avanti, quando cominciò una produzione di tipo industriale. Questa fu una delle ragioni, è da credersi, del fiorire dell’anarchismo in questa terra. La volontà di riappropriazione di un bene comune.» Quando sul finire dell’Ottocento le cave, che per gli usi civici (le cosiddette «vicinanze») erano “beni comuni” indivisi, vennero espropriate alle comunità e privatizzate (per finire presto in mano alle multinazionali dell’escavazione), le genti di Massa e di Carrara che abitavano i monti e lavoravano in quelle cave, aderirono in forma spontanea, esistenziale, alla pratica anarchica (perché l’anarchia è in primo luogo un metodo, un sentiero e una pratica, e solo in subordine un’ideologia). «Per spaccare il marmo devi capire quel è la linea giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. Se invece vai contro il verso, non ci riesci. Non c’è verso, proprio. E quello si chiama contro. Il marmo è come la vita, morbido al verso e duro al contro. Solo che avere il contro in testa non è facile. È un bel fardello da portare.» Il «contro in testa» è dunque per l’autore un atteggiamento naturalmente (geologicamente) refrattario, ribelle e riottoso all’ordine impartito, perché è come il verso “contromano” della pietra calcarea, concrezione geologica marina (il mare che si fa montagna), che se presa per il verso sbagliato è dura come basalto, e non si taglia. «Basta salire sulle montagne, in Apuania, e il paesaggio stesso si presta a essere scenario di visioni. Che poi già il marmo è un brulichio di vite marine, sedimenti carbonatici prodotti in quelle che furono scogliere coralline. Quegli strati, segnati da linee oblique e parallele, vene sottopelle che il lavoro millenario delle cave ha scoperto e portato in superficie, sbattendotelo in faccia – quegli strati di marmo sono vivi, profondamente vivi, e quel biancore che ti abbaglia è come un concentrato ipnotico di vita. Il mare, qui, è già compreso nella montagna.» Uomini e cose sembrano quindi appartenere a uno stesso orizzonte ontologico. Qui cadano determinati aspetti metafisici come la solitudine del cavatore in tecchia, un confronto quotidiano con la morte che fa dell’anarca un “individuo” solidale, ovvero il rovescio della concezione liberista: la società dei solitari è una società «spartana», nel senso che spartisce un destino comune, quello che nella lizzatura fa dipendere la tua vita da quella degli altri. Nella medesima rete di relazioni, di «conduttori elettrici», e attraverso la loro «visionaria» sedimentazione psichica, si apre per l’autore un orizzonte di «eventi», alla Badiou, che nella loro estemporaneità e singolarità producono significati permanenti e universali (come la morte di Carlo Giuliani o il breve avvento della Comune di Parigi). Proprio qui si mostra l’aspetto più letterario del libro, ovvero la capacità di raccontare una città, anzi due, come fosse il doppio spaventoso dell’Italia intera, o se vogliamo del mondo. «L’ho detto e ridetto; reale la rivolta, qui, lo è stata, ma da un trentennio a questa parte un’onda di dimenticanza pare aver sommerso la storia passata, e pare sia in grado di cancellare quell’identità che si credeva incisa nel marmo. Per ciò, allora, questi ultimi trent’anni di questa terra non dicono solo di se stessi, ma anche di una storia più ampia: raccontano, come fosse un eccentrico punto di verità, della storia e della mutazione della società italiana.» Ritroviamo questo modo partigiano e “messianico” di intendere la verità nel racconto dell’esemplare protesta degli immigrati al Duomo di Massa, che il narratore si assume il rischio di considerare “figura” dell’epoca presente, nel bene e nel male. D’altra parte – sempre parafrasando Badiou – non esiste evento se non quello che siamo d’accordo per riconoscere come tale. «È cosa buona e giusta che questa terra sia trasfigurata. La trasfigurazione le appartiene. Qui hanno proliferato visioni, e una visione è davvero tale quando ne suscita altre, in una catena interminata.» L’antefatto è la promulgazione della sanatoria-truffa «salva badanti», ultima di una serie di leggi «asimmetriche», che pongono gli immigrati in una «condizione di minorità e di totale dipendenza dal datore di lavoro», impedendo l’emersione dal marchio criminalizzante della clandestinità. Il primo maggio del 2011 un gruppo di immigrati occupa pacificamente l’ingresso del Duomo di Massa, chiedendo ascolto e solidarietà. Dal nulla si crea un presidio e un moto di solidarietà spontaneo capace di contagiare perfino i commercianti del centro, che sostengono la protesta fornendo viveri e generi di conforto agli occupanti. «Ecco, qui, nel centro della città, dove ci sono lavoratori senza diritti che li rivendicano, è qui che io ritrovo finalmente lo spirito di una terra che non sentivo più mia. È qui che trovo la resistenza viva, vibrante, gioiosa, piena di speranza, che guarda all’avvenire. È qui che i fantasmi smettono di essere tali, e tornano a essere lo spirito di corpi che agiscono e costruiscono un mondo.» Così per l’autore anche questa vicenda diventa un tutt’uno organico coi movimenti di Occupy Wall Street, gli Indignados, i No Tav, e prima ancora il Social Forum, i No Global, un pastore visionario, l’esplosione della Farmoplant e la nascita della coscienza ambientalista, Lotta Continua, la pecora nera massese, la resistenza partigiana sui monti liguri-apuani, gli eccidi nazifascisti di Forno, Vinca e San Terenzo, la rivolta delle donne a piazza delle Erbe, l’opposizione antifascista durante il ventennio, l’attentato a Mussolini, l’uccisione di Umberto I, i moti di Lunigiana all’epoca di Crispi, fino all’anarchia eliogabalica del principe Alderano e prima ancora alla resistenza dei liguri-apuani alla dominazione romana. Movimenti, eventi, figure, azioni, pratiche: non partiti e non istituzioni, sentite (dallo spirito anarchico che seduce la prospettiva di chi narra) come il “nemico” immorale trionfante. Mentre come diceva l’editore e stampatore di “Umanità Nova” Alfonso Nicolazzi: «tante persone fanno scelte anarchiche ogni giorno, e non se ne rendono conto.» Alfonso Nicolazzi, Osvaldo Pegollo, Alberto Meschi, Gogliardo Fiaschi, Ceccardo Ceccardi: sfila in queste pagine un corteo di personaggi eroici – politici e letterati – che agli occhi dell’autore rappresentano un modello e un ostacolo, perché «non ce nè più di uomini così, non ce n’è più.» «Fu così che iniziai il mio viaggio nella terra dei fantasmi. Mi sentivo l’ultimo anello di una catena proliferante di padri, eredità polverizzate e disperse, e tanto più celebrate quanto più disperse. Quanto maggiore la distanza, tanto più l’attaccamento e l’identificazione. Un riconoscimento unilaterale, però, ché l’anarchico dell’Ottocento non è più qui per riconoscerti. È convocato in effigie, e costretto a farsi padre. Del resto il padre putativo, quello che ha fatto il Sessantotto, lui è sparito. E la mia generazione si è trovata orfana.» Chi parla qui? Un narratore dalla tensione etica ed espressiva inappagata, che non cerca nei «fantasmi del passato» il confronto coi dilemmi attuali, ma che proprio pensa sé stesso come la materializzazione dei fantasmi delle passate generazioni, come lo stadio o la «figura» in cui queste generazioni passate risolvono retroattivamente i loro punti morti, redimendosi. «Cosa resta del padre, domanda l’analista, e risponde: la testimonianza. Oggi possiamo usarli, quei padri, proprio in ragione della loro distanza. Perché non è con i loro simboli e le loro pratiche che cambieremo il mondo, perché il mondo ha cambiato formato.» Per la voce narrante non si tratta dunque di prendere a modello i miti del passato, quanto di metterci alla loro altezza etica. Per questo l’autore si mette in ascolto. Ne scaturisce una produzione letteraria (da Lager italiani a Servi, a Lavorare uccide) che trova nella coralità la propria voce: una voce inclusiva, che non prevarica, perché nasce da un confronto coi sacrificati della terra: migranti, clandestini, morti sul lavoro. Il lavoro, innanzitutto. A un certo momento il narratore domanda al Taro, cavatore e anarca: «Taro, dimmi una cosa: per te il lavoro è un valore?» E subito il pensiero va al displuvio di morte e sofferenza che da sempre inquina il lavoro umano, specie quello dei dannati della terra. Ci si domanda se il lavoro sia un «sacrificio» accettabile per pagare il prezzo della nostra libertà. L’autore non risponde, la risposta è affidata al suo interlocutore, come sempre. Ma non pare una coincidenza il fatto che sacrificio e lavoro in cava siano messi in rapporto fin dall’inizio della narrazione: «Sid Barrete cantava e Camilla, seduta sul sedile di fianco, diceva che tutto quel bianco troppo esposto pareva tratto per corrosione, come fosse il resto di un millenario percolare, ottenuto per sottrazione, e non per un’addizione di colore. Era esattamente quel che vedevo anch’io: il rovescio, appunto, il fondo nascosto e terribile che appare alla fine di tutto. Alla fine dello scuoiamento, di un infinito sacrificio.» Se si riflette sulla circostanza che le cave di pietra e le miniere in genere rappresentano forse i cantieri più antichi della terra, diventa quanto mai centrata (e tutta da pensare) la visione della cava di marmo come «introibo a un’ostensione sacrificale»: quella dei reietti della terra, appunto, su cui si concentra l’attenzione del narratore. Negli anni Ottanta, infatti, il «caso Farmoplant» – la Chernobyl italiana. Nell’87 ci fu un referendum consultivo per domandare alla popolazione se il polo chimico apuano dovesse chiudere o meno. La vittoria fu clamorosa: quasi il 72% si espresse per la chiusura: «Il sindaco revocò le licenze, ma il Tar ordinò la riapertura. Fabbrica sicura al 99,99 %, era scritto. Il 17 luglio 1988 l’incidente definitivo. Esplodono i fusti di Rogor, il pesticida più nocivo, che la Farmoplant spacciava come il più puro dell’universo (memorabile l’amministratore delegato: “Io col Rogor mi ci lavo la faccia”). Chi poté scappò da Massa, quel giorno, fu vero panico. Chi restò andò sotto il palazzo ducale a protestare e venne caricato e manganellato dalla polizia. Ma per la Farmoplant fu la fine.» Ne nacque l’embrione di un movimento ambientalista che ancora oggi, nella zona di Massa e di La Spezia, mostra tutta la sua forza pioneristica, per ampiezza e organizzazione, sul fronte della costituzione di Gruppi di Acquisto Solidali e Distretti di Economia Solidale, tanto che l’agricoltura è l’unico settore scampato alla crisi, con un sonoro + 8 % nel 2011. «Del resto è stata lunga la storia dell’infestamento di questa terra. […] Anche l’industria, qui, era nata dal marmo. E fu per la crisi del marmo, quando l’autarchia fascista aveva fatto crollare le esportazioni, che il regime – il ras Renato Ricci in testa – decise di creare la Zona Industriale Apuana. […] I grandi industriali del Nord scesero a colonizzare la piana tra Massa e Carrara, avendo a disposizione pure una grande forza lavoro a basso costo. Siderurgia, meccanica, chimica. Poi venne la guerra.» Quando la Zona Industriale Apuana prese avvio, nel ’38, si cominciarono a produrre gas asfissianti, oltre che pesticidi: «Iprite, a quanto pare. C’era una guerra in Etiopia, se ne avvicinava un’altra, e c’era bisogno di armi. Sacrificare un po’ di contadini della piana apuana era questione secondaria, di ben irrisorio valore. Sempre di colonie si trattava.» La Zona Industriale continuò a pieno regime fino agli anni Ottanta. La chimica di Montecatini e Rumianca. La cokeria della Cokapuania. La meccanica fine della Riv. I mobili da ufficio della Olivetti. La carpenteria avanzata del Nuovo Pignone. Poi, pezzo per pezzo, venne smantellata. Le grandi aziende, che detenevano i due terzi di tutta l’occupazione industriale, vennero ristrutturate. Ovvero, abbandonarono il campo. «Si usciva dal fordismo, era ormai tramontata “l’età dell’oro” di un capitalismo costretto a mediare con le rivendicazioni dei lavoratori. Si entrava rapidamente in una nuova, ruggente, feroce fase storica, che avrebbe triturato tutto e tutti. Ancora una volta, il buco nero degli anni Ottanta, che hanno fatto tabula rasa di ogni storia. La forma delle aree deserte della Zona Industriale e il vuoto riverberato nella via del centro dalle merci nelle vetrine sono la stessa, letale traccia di quel decennio.» Ma al tempo della Farmoplant come in piazza delle Erbe nel ’44, «ha giocato molto il ruolo delle donne, erano loro che prendevano le iniziative, tempestavano la prefettura con centinaia di telefonate, centinaia e centinaia… Dalle finestre delle loro case guardavano dentro la fabbrica, avevano imparato a leggere i movimenti di persone dentro e capire se c’era stato un incidente.» Ecco che torna «il contro in testa», vero genius loci dalle possibilità inespresse: «La Zona Industriale ha unito Massa e Carrara ben prima di Lotta Continua. E l’ha unite nel disastro, come quelle acque bianche e nere che andavano a confluire nello stesso mare.» Pur nel disastro, infatti, o meglio per sua diretta conseguenza, il male diventa l’altro nome della nostra capacità di rinnovarci, di cambiare radicalmente, perché come l’adulto discende dal bambino così il futuro si fonda a partire da una reinterpretazione del passato. L’anarchia, d’altra parte, cerca i suoi modelli nella giovinezza dell’umanità (Junger, Lo stato mondiale):[1] potremmo dunque leggere questa vicenda come la storia di una giovinezza, di un giovane che voleva cambiare il mondo e si trova davanti, in pieni anni Ottanta, il deserto del reale, a cui ci si oppone con una pratica resistenziale che è soprattutto una pratica pedagogica. «Massa è un luogo in cui ancora può darsi un pastore che vede la Madonna. Massa conserva ancora i tratti di una premodernità mai superata, o trapassata troppo in fretta, che torna perciò a singhiozzo e sussulti, come un non-morto nelle notti dei sogni incubosi, che torna tra i buchi e gli strappi delle cicatrici di cemento, asfalto e paraboliche che hanno saturato questo lembo di terra compressa tra la catena di monti, vissuti come troppo incombenti, e un mare che i massesi hanno sempre avuto in sospetto. È anche per questo che qui hanno dimorato i visionari.» Per diretta conseguenza, persino la prosa dell’autore è un confronto/scontro con l’identità e la prosa poematica del novecento, una rammemorazione che è anche una festa di liberazione dai fantasmi del passato: nel libro compaiono qua e là gli inserti di un testo precedente, un testo giovanile che cercava di abbracciare il deserto del reale con uno sguardo tanto dritto da apparire orbo, fuori fuoco. «Nello sbucare dal buio sottopassaggio, gli occhi erano stati abbagliati dalla luce improvvisa di quel sole che brillava algidamente. Stava, Evasio, come mettendo a fuoco da una differente prospettiva quanto lo circondava, ciò di cui aveva, finalmente, per la prima volta, una chiara visione. Quella città gli si rivelava come un ammasso disordinato di cose, e quel disordine propagantesi dal centro alla periferia, e indietro da questa a quello, tanto che non esistevano più né l’uno né l’altra, ma solo una grande, magmatica nebulosa.» Differente da questo precedente progetto narrativo autobiografico la difficile ma riuscita operazione che l’autore affronta qui: quella di infilare la testa nell’acqua dei ricordi e nello stesso tempo cogliersi da fuori, sulla distanza. Mi sembra in conclusione di poter dire, per chi abbia seguito o voglia seguire la produzione letteraria di Rovelli, che questo libro rappresenti il momento di passaggio dall’inchiesta saggistica, dal reportage narrativo, alla forma romanzesca vera e propria, che già si annuncia con la pubblicazione, in settembre per Bebés, del romanzo d’esordio “Il rovescio del sangue”. All’insegna di una «debole forza messianica» del narratore (Benjamin), che dentro una sorta di «interpretazione figurale» (Auerbach) della propria vita, adempie quanto rimasto aperto – domandativo, doloroso – del suo passato, e lo redime.
[1] . Ironia della sorte, il figlio di Junger, arrestato per attività di opposizione al regime nazista nel febbraio del 1944, venne inviato sul fronte occidentale della Linea Gotica, e trovò la morte a Carrara nel novembre dello stesso anno: una sinistra coincidenza per l’autore del “Trattato del ribelle”, da molti considerato un inno all’anarchia, e di “Sulle scogliere di marmo” (1939) – libro preveggente, anti-nazista, probabilmente ispirato da un viaggio in Dalmazia ma leggibile come una dantesca discesa agli inferi che prende avvio dalla coreografia allucinata di una cava apuana.
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