Marco Rovelli

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10/09/2012

Recensione di Maria Teresa Grillo a Il contro in testa su Il lavoro culturale

 (www.lavoroculturale.org)

Nostra patria è il mondo intero - Il contro in testa di Marco Rovelli

di Maria Teresa Grillo

10 settembre 2012

Lavorare stanca, diceva il nostro compagno Pavese, no? Non so come lo sapesse lui, ma io lo so per esperienza. Ho sempre lavorato nella vita, sempre in fabbrica! E qui a Massa e a Carrara andare a lavorare in fabbrica per cinquant’anni è stato il sogno di tutti… Vabbè, di tanti… Di sicuro dei signori no! Il mio lo era, non potevo sperare certo più di quello. E però, proprio perché ho sempre lavorato, senti un po’ quel che ti dico” (anche Carlo cominciava a sbiascicare qualche parola), “e però sono convinto che l’uomo non è uomo nel lavoro, no!, l’uomo è uomo nelle cose inutili, quando canti, quando ridi, quando scopi, allora sei come un dio! E poi, pensaci bene, dimmi cosa c’è di più inutile di dio…”

 

Il contro in testa. Gente di marmo e di anarchia di Marco Rovelli, scrittore e musicista, è uscito a giugno 2012 per Laterza nella collana Contromano, quella delle “storie inconsuete di luoghi, di cose, di gente”. E come tutti i piccoli volumi di questa collana, è un ibrido.

Il libro di Rovelli ha infatti due anime: una più letteraria, composta dai racconti “di marmo e di anarchia”, raccolti attraverso la voce degli uomini e delle donne che hanno vissuto da protagonisti la storia dell’anarchia apuana; un racconto corale, i cui periodi si susseguono morbidi, e incalzanti. I luoghi percorsi sono reali, le storie realmente accadute, ma i toni, l’atmosfera e la lingua sono quelle di un romanzo: osterie, manifestazioni, passeggiate. Se poi il narratore è anche un musicista, allora succede che la musicalità dei periodi diventi un elemento caratterizzante, il cui effetto è del tutto naturale (e quanto ci piace!), e riverbera nei versi dei canti anarchici che inframmezzano il testo.

L’altra anima, più documentaristica, svolge un’analisi del presente e della storia recente, affrontando – in quello che purtroppo rischia l’effetto calderone – temi come lo sfruttamento delle scaglie di marmo per la produzione di carbonato di calcio, la zona industriale apuana, le questioni dei beni comuni, dell’imborghesimento, del proliferare dei gruppi neofascisti, dell’immigrazione, del G8 di Genova. L’unico problema del libro, forse, è proprio nella conciliazione di queste due anime – di per sé difficile, va detto – i cui punti di connessione stridono, quasi fossero due lastre di marmo che scorrono l’una sull’altra.

Rovelli è massese, e si muove bene nella sua terra. Ne conosce la storia, le storie, e quelle che non conosce se le fa raccontare girando per le osterie, per le manifestazioni, andando a trovare i partigiani, i pochi che ancora vivono in montagna, i vecchi pastori nei boschi. Le loro testimonianze formano l’ossatura della narrazione, soprattutto nella prima parte. Portano con sé la vividezza delle immagini ben impresse nella memoria e la forza evocativa della leggenda.

Massa e Carrara sono due città sorelle, anche se rivali, dell’Apuania, da sempre terra di cavatori, da sempre anarchici. C’è una motivazione capace di spiegare questo binomio: i cavatori lavoravano in squadre di tre o quattro persone, le cui vite erano legate, e in cui l’errore di uno solo avrebbe compromesso la vita propria e quella dei compagni. E poi, erano alla pari, non poteva esserci uno che comandava e altri che obbedivano. Di qui lo spirito di fratellanza e uguaglianza fra cavatori che, ovviamente, si catalizzava contro un obiettivo preciso: il padrone della cava.

Questo legame fra marmo e spirito libertario fa da sfondo al racconto (era facile intuirlo già dal titolo, in effetti), e compone una metafora articolata, sviscerata:

Per spaccare il marmo devi capire qual è la linea giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. Se invece provi a tagliarlo diciamo al contrario, se vai contro il verso, non ci riesci: non c’è verso, proprio. E quello si chiama contro. Ecco, i carrarini hanno il contro in testa, sono duri, resistono, e non c’è verso di scalfirli. Non c’è il verso, proprio”.
Il marmo è come la vita, morbido al verso e duro al contro.
“Solo che avere il contro in testa non è facile. È un bel fardello da portare. Che se ti trovi in periodi di piena va bene, sei un ribelle, ti unisci con gli altri e allora guai a chi vi tocca. Se Carrara è terra di anarchici ci sarà un motivo, no? Ma in tempi di secca, quando nessuno ha speranze di trasformare questo mondo, allora avere il contro in testa non è bello, vai contro il tuo vicino, il tuo compagno, il tuo amico. Tutti a parlar male dell’altro, a farsi guerra l’un con l’altro. Non è bello.”

Si potrebbe anche andare oltre, ed è in fondo l’autore stesso a suggerirlo, fino a dire che gli anarchici sono come il marmo: nel senso che questo, come l’anarchia, è il fondo duro e testardo che caratterizza l’Apuania e che eroicamente, tragicamente, si oppone agli eventi. Il marmo è nascosto eppure evidente, è duro ma arrendevole e in fondo arreso. E poi, “in Carrara anche le pietre sono anarchiche”, appunto, e il marmo stesso “dentro, è vivo. È come una pianta che ci ha alimenti dalla montagna”. In ogni caso, ammette Rovelli: “potremmo argomentare all’infinito quale metafora conviene di più, le metafore del resto sono fatte per questo”. E a un certo punto lui stesso ne abusa, e cede alla tentazione di fare dell’imborghesimento, dell’“addormentamento” della tradizione libertaria a Massa e Carrara metafora dell’Italia intera. Piccolo neo.

Il contro in testa è al contempo immersione ed emersione, è un viaggio di ritorno nella terra della propria storia e della propria formazione politica, fatta di personaggi noti alla storia o rimasti nella non meno importante mitologia locale, all’interno della quale l’autore però non perde lucidità, e continuamente si chiede se “quello spirito secolare è davvero un senso profondo che ha impregnato questa terra, o è solo una nostra immaginazione, un altro fantasma creato a uso e consumo personale per mascherare la nostra impotenza?”

È difficile fare i conti con un passato così denso:

Mi sentivo l’ultimo anello di una catena proliferante di padri, eredità polverizzate e disperse, e tanto più celebrate quanto più disperse. (…) E la generazione successiva, la mia, si è trovata orfana. Generazione smarrita, paralizzata nella propria irrequietezza, facile da tenere a bada. Anni plumbei, gli anni Ottanta, altro che anni “di piombo”. Eravamo piombati nella cattiva coscienza dello spettacolo onnivoro, nel tritacarne di un’interminabile moscacieca. E lo sapevamo: l’assenza non ha mai cessato di esserci presente, abbiamo vissuto circondati da fantasmi.
C’è da attraversarlo, dunque, questo campo pieno di fantasmi. E forse, dopo, saremo in grado di sporgerci in avanti.

E così Rovelli passa dall’odio per questa “madre secca e muta” al tentativo di comprensione, alla disillusione e alla critica. Che a volte sfiora i toni un po’ retorici – inevitabili? – del “non ci sono più gli uomini di una volta”, dell’importanza della memoria per non ripetere nuovi orrori, o dell’equazione tra anni Ottanta e Drive In (ancora…), ma altre volte ha la bella sfacciataggine di osare un epilogo in cui gli immigrati che manifestano contro le ingiustizie costretti a subire possono essere i nuovi ribelli di questa terra. La stessa in cui i figli dei vecchi anarchici imborghesiti sono rimasti orfani e non riescono a ricreare “un tessuto sociale, una comunità, un linguaggio, un senso comune. Pratiche quotidiane di resistenza e di ricostruzione”. Ma non è solo colpa loro, perché sono i padri ad essere stati incapaci di passare il testimone: hanno creduto di “aver già dato”, e che in quello si esaurisse il loro compito. Così, di questi padri non resta che l’esempio, l’unico capace di rendere liberi, a detta dell’autore, anche se attraverso simboli e pratiche differenti, perché è il mondo che è cambiato nel frattempo. Eppure, nonostante, o forse proprio per questo, regna la confusione sul da farsi, un’impressione amara, di sconfitta, solo lievemente confortata da quel senso di appartenenza e di affetto che rimane nonostante la resa:

Ma il lavoro”, diceva Carlo, “il lavoro è nostro! Tra vanga e catena, io gli ho dato la vita a questa terra! Le vedi queste mani qui? Senti i calli! Sono come libri! Qui c’è scritto tutto! Le mie mani sanno quel che c’è da sapere. Ma sapere non è potere, caro mio. Il potere ce l’hanno gli altri.”

A noi che non siamo massesi, però, rimane soprattutto la fascinazione esercitata da questi personaggi, la voglia di sedersi con Carlo, il Taro e gli altri, appoggiati a un tavolo di marmo, e pendere dalle loro labbra facendosi raccontare ancora una volta le storie dell’attentato di Gino Lucetti a Mussolini fallito per un soffio, dei moti del 1894, di Gino Giorgi che ricercato dai carabinieri si diede per morto e visse altri trent’anni a casa sua. Bevendo un bicierin di vino, e poi due, e tre…

 

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