Marco Rovelli

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01/10/2012

Recensione di Franco Bertolucci a Il contro in testa su A rivista anarchica

  «Ho odiato la mia terra come si odia una madre secca e muta, una landa sterile e infeconda, un vuoto inabitabile e senza contorni. L’ho odiata perché mi appariva come un magma informe, impasto senza lievito. L’ho odiata perché non ne trovavo l’anima. L’ho odiata perché, man mano che mi conoscevo, temevo che non sarei stato altro da lei». Così inizia il viaggio autobiografico di Marco Rovelli, scrittore, musicista e insegnante di terra d’Apua, nato ai piedi di quelle montagne che, come scrive, ospitano i «visionari».

Con una scrittura piana e vivace, Rovelli ci trascina in un viaggio personale nelle viscere di una terra fatta di donne, uomini e ribelli, tra leggende, mito e storia, di cui oramai rimane solo una flebile traccia.

Rovelli nasce nell’anno successivo al Sessantotto studentesco: il 1969 fu caratterizzato dalla grande contestazione operaia – anno terribilis, che si chiuderà con la strage di Stato di Piazza Fontana e il “suicidio” dell’innocente Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, volato giù dal quarto piano della Questura di Milano –. Rovelli cresce culturalmente e politicamente negli anni ’80, l’epoca dell’ascesa di Craxi e dell’incubazione del berlusconismo. Sono gli anni della deindustrializzazione, che per la provincia apuana significa la dismissione delle fabbriche storiche di tutta l’area del piano che va da Avenza a Massa, un’area nata sotto il fascismo come risposta negli anni Trenta alla grande crisi del commercio del marmo.

È in questo scenario che Rovelli si imbatte nella leggenda e nel mito delle genti ribelli di queste terre. L’incontro avviene progressivamente con la scoperta dei luoghi, degli spazi e delle montagne che sovrastano l’intero territorio. I luoghi sono le piazze e le strade di due città rivali ma vicine Carrara e Massa, con le loro diverse origini, i loro monumenti e le loro lapidi. Queste città, pur con le loro diversità storiche, urbanistiche e delle loro genti, nonostante tutto sono unite da un indissolubile destino comune.

Massa, politicamente moderata, è una città influenzata dal suo ruolo amministrativo e istituzionale, ed esprime sul piano sociale un riformismo gradualistico.

Carrara è invece la città del marmo, dai forti contrasti sociali che contrappongono la borghesia industriale a un proletariato forgiato dal duro lavoro dell’estrazione dell’“oro bianco” e istintivamente ribelle. La città è ancora oggi attraversata spesso dalle ritualità laiche e libertarie dei cortei del Primo maggio che bene testimoniano lo spirito e la fede delle sue genti agli ideali antiautoritari. Un approccio istintivo all’anarchismo con alcune venature mistiche dove spesso l’adesione agli ideali libertari è vissuta come una “religione laica”.

In mezzo a queste due realtà c’è poi Forno un borgo che rappresenta l’anello di congiunzione tra la tradizione politica moderata della prima e il ribellismo della seconda.

Gli spazi per eccellenza dove si tramanda la memoria di questi territori sono le osterie con i loro personaggi verghiani, che si affrontano, con duelli di parole e pensieri, sbicchierando il profumato vino di Candia.

Le montagne che fanno da spettacolare palcoscenico a entrambe le città sono gli incredibili e affascinanti bacini marmiferi delle Alpi Apuane – definite da Rovelli «montagne resistenti».

L’impatto con questo mondo permette a Rovelli di conoscere e raccontare la sua storia rovesciata – quella con l’esse minuscola – della società locale, la storia dei “vinti”, dei subalterni, dei “senza volto”, e delle loro utopie, delle loro contraddizioni, della loro caparbietà, in specie per i carrarini – dura come il marmo – che ne caratterizza lo spirito «insuscettibile di ravvedimento». Racconta Silvano, uno dei personaggi che Rovelli incontra in osteria, della «differenza ontologica» tra la gente di Massa e quella di Carrara: «Il massese è molle. È rimasto sempre un contadino, servile. Il carrarino no, il carrarino non si piega, è fiero, schiena dritta. Ha il contro in testa il carrarino».

«E che significa?».

«Per spaccare il marmo devi capire qual è la linea giusta, il suo verso. Se la segui, tagliarlo è facile. Se invece provi a tagliarlo diciamo al contrario, se vai contro il verso, non ci riesci: non c’è verso, proprio. E quello si chiama contro.

Ecco, i carrarini hanno il contro in testa, sono duri, resistono, e non c’è verso di scalfirli. Non c’è il verso, proprio».

Fantasmi di un passato remoto, che a volte riappaiono nell’oscurità delle fiaschetterie che raccontano di donne e uomini i cui nomi – Taro, Ciac, Pedro, Franca, Evaristo, Ometto, Conte Giò, Rina, Ovidio Pegollo e tanti altri – sembrano usciti da un film di Fellini, ai più non dicono niente ma in quei luoghi sono una parte attiva della memoria orale collettiva. Custodi di un tempo e di una storia che l’oblio tende a cancellare e a volte esse stessi vittime di un mito – quello della città “anarchica” per eccellenza – che tende a fagocitare la storia stessa del movimento libertario. Come dice l’autore del libro «il selciato di Carrara è ingombro di memoria».

Dalle conversazioni e dalle sbicchierate in osteria escono altri nomi come quello di Alberto Meschi, Galileo Palla, Gino Lucetti, Pietro Gori, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Ugo del Papa ecc. e momenti di storia collettiva come i Moti di Carrara del 1894; la rivolta delle donne di Piazza delle Erbe contro gli occupanti nazi-fascisti del 1944 e le incredibili vicende del movimento resistenziale apuano; le manifestazioni di Lotta continua – il ricordo della presenza di Adriano Sofri a Massa – dei primi anni Settanta; la dura agitazione contro la Farmoplant – industria chimica della “morte” – degli anni Ottanta; le rivendicazioni dei Cobas del marmo – guidati da Giovanni Pedrazzi detto «Pedro» – sull’uso civico degli agri marmiferi negli anni Novanta del secolo scorso (un bene comune delle comunità locali espropriato dalla borghesia industriale nel XIX secolo). Infine, altri personaggi animano questo racconto, con storie diverse come quella di Gogliardo Fiaschi, dei compagni del Circolo Bruno Filippi, fino alla vicenda di Ovidio Bompressi. È bene precisare che questo non vuol essere un libro di storia. Il racconto si alimenta delle storie biografiche di alcuni ribelli, che per vari motivi hanno attraversato l’immaginazione e il cuore di Rovelli. Queste vicende sono un approccio personale e letterario a una storia, quella del movimento anarchico della zona, che è assai ben più complessa, articolata e ricca di personaggi.

La lettura delle pagine di questo libro che, a volte, risente positivamente anche di un taglio antropologico, ci immerge altresì nella particolare cultura del lavoro di queste terre, sui mille mestieri che animano l’antica estrazione del marmo. Un mondo anch’esso in via di estinzione a causa dell’insensato e selvaggio industrialismo che, oltre a far scomparire il lavoratore di mestiere, ha ridotto queste bellissime montagne in un groviera con mille problemi ambientali.

Un libro per la memoria perché dice Rovelli in «assenza di futuro non restava che rivolgersi al passato», alla ricerca di quel «conduttore elettrico» che ha contribuito a illuminare la storia sociale e politica di questa terra. Racconti nel racconto, quasi generazionale, di una generazione «orfana» dei «padri dell’anarchia e dell’utopia» che non sa darsi pace dell’inevitabile avanzare delle acque del fiume mitologico Lete che ogni memoria distrugge. Un processo che porta Rovelli a domandarsi «dove sono finiti tutti quei ribelli» e «dove sono finiti quei sogni?». Risposte non ce ne sono, questa non è più l’epoca delle grandi certezze delle ideologie e poi questo è un racconto, non un libro di sociologia o di filosofia politica ed è giusto che il lettore provi da solo a immaginare e sognare le proprie risposte a una crisi epocale che attraversa l’intera società come, inevitabilmente, anche l’anarchismo contemporaneo e che angoscia anche l’autore di questo libro.

Rovelli, chiude il proprio racconto lasciando aperta una finestra sul futuro, quando descrive la lotta di un gruppo di migranti nel Duomo di Carrara, di cui egli stesso è partecipe: «Ecco, qui, nel centro della città, dove ci sono lavoratori senza diritti che li rivendicano, è qui che io ritrovo finalmente lo spirito di una terra che non sentivo più mia. È qui che trovo la resistenza viva, vibrante, gioiosa, piena di speranza, che guarda all’avvenire. È qui che i fantasmi smettono di essere tali, e tornano a essere lo spirito di corpi che agiscono e costruiscono un mondo».

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