Marco Rovelli

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02/12/2012

Intervista a Corriere Immigrazione su La parte del fuoco

 http://www.corriereimmigrazione.it/ci/2012/12/la-parte-del-fuoco/

 

 

Un tunisino senza documenti e un’italiana senza pace: un incontro improbabile dal quale nascerà, per entrambi, una speranza.

Karim ha 31 anni, è tunisino ed è arrivato in Italia sfidando il Mediterraneo e rischiando la vita per ragiungere la Fortezza Europa. Elsa è una ventenne veneta, figlia di un imprenditore, con un buco nero nel passato e una fortezza che non è mai riuscita a espugnare: la sua famiglia. Entrambi cercano una via di fuga dal proprio destino e la trovano nel corpo: Karim impara in un Cie di Torino che, se si ferisce con una lametta, ha qualche possibilità di evitare il rimpatrio. Elsa ha cicatrici in tutto il corpo perché si è abituata, negli anni, a fare la stessa cosa: ferirsi per gridare il suo dolore, ma senza voce. Quando il caso li fa incontrare, riconoscersi per loro è inevitabile. La loro storia la narra Marco Rovelli, già autore di Lager italiani (2006) e Servi (2009), libri/inchiesta nei quali raccontava la vita degli immigrati negli ex Centri di Permanenza Temporanea (adesso Cie, ndr) e nelle campagne del mezzogiorno. A differenza dei precedenti, però, La parte del fuoco (Barbès, euro 15) è un romanzo.

Com’è nata l’idea di affiancare questi due personaggi?
«Le due storie sono cresciute separatamente. All’inizio c’era quella di Elsa, nata quando sono entrato in contatto con storie di autolesionismo e anoressia che mi hanno molto colpito perché sono patologie significative del nostro tempo, che hanno anche un senso profondo rispetto al nostro essere umani, perché implicano la relazione con il corpo e con una società che, negandosi, ti nega. Ma io, negli anni, ho anche ascoltato centinaia di racconti di migranti: storie che ti scuotono, ti stanno dentro e poi fermentano da sole. Così, a un certo punto, ho visto che potevano esserci due vicende, apparentemente distanti, legate dal filo dell’autolesionismo, anche se provocato da motivazioni diverse. Sia Karim che Elsa sono reclusi, in qualche modo. Per Karim c’è la reclusione in uno stato giuridico che lo nega in quanto “clandestino”, e poi la reclusione fisica nel Cie. Per Elsa ci sono sbarre mentali e familiari, forse ancora più difficili da scardinare. Per entrambi il tagliarsi indica la voglia di fuga: ma è uno strumento infecondo, perché facendoti del male rovesci su di te quello che non riesci a portare fuori. La società ti cancella e tu, che non sai articolare con il linguaggio il tuo dolore, parli tracciando un segno su di te».

Karim esiste davvero?
«No, è un personaggio immaginario, ma ogni pezzo della sua storia è reale e credibile: vive nel quartiere torinese di San Salvario, lavora in una fabbrica del nordest e poi in un campo di pomodori in Puglia…».

Anche se diverso dagli altri, anche questo, in qualche modo, è un libro di denuncia.
«Non mi piace parlare di denuncia, perché implica che ci sia un denunciante, cioè uno che si pone dalla parte del giusto, e qualcun altro che è il cattivo. Qui non c’è un porsi dalla “parte giusta”, c’è semmai una scelta etica, quella di mettersi a osservare delle situazioni per poi condividerle. Questa condivisione è necessaria, compiere scelte etiche fa parte del cammino dell’essere umano».

Quindi storie come queste devono essere raccontate?
«È necessario cercare di vedere il mondo dai suoi margini: perché stando dal centro non hai la percezione esatta della forma delle cose. Per capire il centro è importante andare a vedere quello che di solito è oscurato».

Nel nostro Paese c’è consapevolezza di quello che succede “ai margini”?
«In Italia non c’è consapevolezza di nulla! Ma ciò detto, io sono fiducioso sull’immigrazione perché la presenza delle seconde generazioni sta facendo lentamente mutare lo sguardo del popolo italiano. Il problema non è più gestire lo shock culturale; ora dobbiamo assumerci il compito di costruire una società meticcia attraverso corrette politiche culturali. E si dovrebbe cominciare dalla scuola. Io insegno e la mia fiducia viene da lì: quando in una classe, su 20 alunni, 5 sono figli di immigrati, ti rendi conto che la percezione dei futuri cittadini sarà diversa. La scuola dovrebbe stimolare questa integrazione, ma non lo fa: i programmi di studio, per esempio, sono ancora eurocentrici, non accennano a cosa è avvenuto altrove. Ragioniamo ancora come 50 anni fa. Inoltre bisognerebbe agire attraverso politiche urbanistiche, intervenendo in città con un alto tasso di meticciato: se abbandoni a se stessa una zona come quella di via Padova, a Milano, si creano conflitti che poi è anche facile ingigantire. Se, invece, al posto di mandare solo la polizia, aiuti e sostegni associazioni e piccole realtà locali, magari i vecchi abitanti non scappano. E questo un po’ sta succedendo».

Alle presentazioni dei tuoi libri capita che ci siano anche dei migranti?
«Non è facile, ma mi è successo di dare i miei libri a persone di cui raccontavo le vicende, sia italiani che stranieri, e i loro feedback sono stati straordinari. Mi hanno detto che vedendo la loro storia raccontata tutta insieme, con un ordine, ne hanno capito il senso e si sono commossi. Questi riscontri per me sono più importanti di qualsiasi recensione sui giornali».

Gabriella Grasso

 

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