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22/01/2014

Recensione di Francesca Matteoni a La meravigliosa vita di Jovica Jovic su Nazione Indiana

 La meravigliosa vita di Jovica Jovic è un avventura composita di frammenti biografici, fiabe, interviste narrate prima oralmente da Jovica stesso, musicista rom, a Moni Ovadia e Marco Rovelli e poi da loro scritta in questo libro. Un libro che non vuole esporre le vere vicende dei rom – esistono, per questo testi storici e antropologici, tra cui segnalo La persecuzione nazista degli zingari di Guenter Lewy (Einaudi, 2002), ma piuttosto dar l’occasione ad uno di loro di avere voce, di affabulare i suoi lettori, convincendoci ancora una volta che è tutto vero, non perché è andata così, ma perché così ci viene raccontata. È dunque l’avventura bizzarra della memoria, in cui ciò che si è ascoltato si fonde a ciò che si è visto e attende di dirsi agli astanti per avere senso. È l’avventura di un popolo spesso frainteso, disprezzato o guardato con pietà, raramente accolto in modo paritario. È un’idea di famiglia, un pezzo di storia e di guerra (dai campi di sterminio e i triangoli marroni, alle guerre nei Balcani), dove la sofferenza si trasforma sempre alla fine, un canto di vita. È l’avventura di un uomo. La sua storia. E se le storie ci abitano, l’unico modo perché ci facciano davvero uguali, è continuare a raccontarle.

Si legge nel libro: “Bisogna sempre attraversare terre sconosciute prima di capire e giudicare. Non è restando nel recinto che si cresce”. Vorrei aggiungere: perché questo attraversamento avvenga, bisogna credere profondamente alle parole degli altri. Sospendere il nostro bagaglio di pregiudizi e conoscenze, da riesumare dopo, semmai, in uno sguardo attento e critico, e tenere le parole come la musica – qualcosa che ci trascina, ci passa dentro, ci contiene.

Jovica è, non a caso, un musicista e anche, almeno qui, un cantastorie: la dimensione orale del libro –testo scritto per volontà, direi, dei curatori di colmare un vuoto – richiama l’universo folklorico, dove le storie nascono da uno scambio ripetuto tra chi dice e chi registra, da un interesse per l’altro, da parte del ricercatore, che annulla la distanza, proprio perché riconosce come valore la differenza. Differenza che non necessariamente è piacevole e affascinante: si prenda per esempio il capitolo sulle questioni di genere, dove è assai faticoso accettare una visione genuinamente etero-patriarcale della donna e delle relazioni. La tensione alla parità tuttavia implica proprio questo: un innamoramento che non esclude il disincanto. Prima dovremmo imparare ad accettare, poi tentare il passo per la società migliore, poiché più inclusiva e dialogante. Differenza però che viene meno, di colpo, davanti alla tragedia del figlioletto di Jovica, la cui morte resta ancora un caso insoluto, una morte senza voce contro il potere. Si legge: il bambino di un serbo, di uno che vive nei campi, che, secondo il senso comune, “ruba e mente”; si leggono anche, in questo paese dove le forze della giustizia troppo spesso si opacizzano, si mutano in agenti di sopraffazione e violenza impunita, Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi. Differenza, ancora, che si stempera perfino nella gioia dolente della fisarmonica, della festa. Forse perché per noi umani la parità diventa difficile nel quotidiano, negli abbrutimenti come nelle lotte giornaliere, e abbiamo ancora bisogno di risvegli terribili o di momenti euforici e pieni di oblio, di entusiasmi e dolori condivisi per accidente o casualità con estranei come con figure familiari, perché l’altro diventi cioè che è – un attimo di agnizione.

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