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03/06/2015 Recensione a Tutto inizia sempre su L'Isola che non c'era di Giorgio Olmoti
http://www.lisolachenoncera.it/rivista/recensioni/tutto-inizia-sempre/ Dentro Tutto inizia sempre, l’ultimo progetto discografico di Marco Rovelli, c’è un perfetto kit di sopravvivenza sonora a questo presente che azzera, che nega, che rinuncia, che fa una maledetta fatica a darsi dignità di tempo appunto. Un compendio di storie sonore corpose, lontano dalla voga di canzoni fatte di lievi evocazioni e ammiccamenti a un onirico condiviso. Qua dentro, ficcati a cuneo nelle canzoni, anche i concetti più difficili da contenere e stringere, pare prendano una consistenza constatabile tattilmente e la libertà è carne e mica tanto ideale e è ancora rabbia e passione, maledetta passione. Da una canzone all’altra, la sensazione è di essere coinvolti in una sorta di opera rock, già proprio rock nel senso di quel suono scuro e vibrante che passa sulla pelle e che sai riconoscere per ripetuta frequentazione. Certo, c’è la canzone più marcatamente autoriale, l’influenza della musica popolare, la ballata e gli archi che già da Il tempo che resta, il brano d’incipit, spingono e aprono le danze ma l’insieme suona come un corposo passo rock. Andrebbe a buon diritto raccomandato l’ascolto dall’inizio alla fine di tutto il disco, senza fermare la maledizione di questa piena che invade e spazza via. Per questo lo chiamiamo rock, per la maledetta tensione e per certa suggestione filmica e poi il tiro micidiale de Il dio che ride, una delle canzoni che fanno la differenza e fanno sospettare che questo sia uno dei dischi migliori che ci abbia mai regalato questo anno a metà del suo passo. E basta passare a Servi, il brano a seguire, per avere piena certezza di questa sensazione d’opera rock in cui la raffinata scelta degli arrangiamenti fatta da Rocco Marchi gioca la sua carta vincendo l’ennesima mano in questa partita sonora di rango. Canzone d’autore declinata in mille possibilità sonore, una coralità complessa che spiazza. Forse Tutto inizia sempre è l’opera più compiutamente matura e articolata del percorso artistico di Marco Rovelli. Senza dubbio è qualcosa che non può essere ignorato. Soprattutto oggi, che siamo qua a contarci nelle tasche proprio il tempo che resta, mentre la potenza espressiva della danza macabra è un segno del passato che non trova ossigeno in questa grottesca quotidianità carnascialesca senza risate. Ma forse vale danzarla ancora, così pare suggerirci questo disco. |
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