[indietro]
25/05/2016 Recensione a La guerriera dagli occhi verdi di Simone Pieranni sul Manifesto
Marco Rovelli ha scelto la forma narrativa del romanzo per raccontare la vita di Avesta, nome di battaglia di una giovane donna e combattente kurda ne La guerriera dagli occhi verdi (Giunti, pp.160, euro 16,50). Il passo romanzesco permette di mescolare in modo riuscito il «prima» e il «dopo» nella vita della ragazza: la sua infanzia, la famiglia e la vita nel villaggio kurdo, un mondo traballante per i colpi della Storia, ma pur sempre sicuro nelle sue misere e poche certezze, fino ad arrivare alla scelta di combattere come estrema soluzione dopo l’ennesimo sopruso delle autorità (in quel caso specifico turche) contro un membro della propria famiglia. Un percorso simile a migliaia di altri kurdi. Un percorso che – interiormente – può essere a sua volta simile a quello di migliaia di altre persone. E quindi per Avesta si è aperta la strada, la via, che conduce a liberare un popolo, a liberare la parte femminile, ancora prima, di quel popolo. Un processo difficile, complicato e sparpagliato perché i kurdi sono stati disseminati dalla Storia tra Turchia, Siria e Iraq. Tre zone al centro di cambiamenti epocali repentini, continui, contrassegnati da agguati, repressioni e campi di concentramento contemporanei, fino all’arrivo dei banditi fascisti del Daesh a complicare ancora di più un quadro già di per sé pericolante e insidioso. L’arrivo sulla scena territoriale e storica di Daesh ha prodotto conseguenze di natura diverse: se da un lato ha rimesso tutto in discussione aumentando la pressione sui kurdi, dall’altro ha dato modo a questa straordinaria popolazione di tornare a mostrarsi al mondo nella sua originale e orgogliosa dignità: ha permesso alla cultura e al «romanticismo» kurdo di portare a conoscenza di tutti il modello politico democratico e confederale voluto da Ocalan e che ha trovato la sua estrema realizzazione vera, reale, fisica, plastica nel Rojava. Marco Rovelli, scrittore, musicista, intellettuale a tutto tondo, ha scelto la forma narrativa per scavare nell’esperienza umana dei kurdi, tentando di sottrarla a una lettura storica – o peggio ancora solo geopolitica – ed elevandola dunque a qualcosa di umanamente percepibile come «universale», una lotta di tutti, non solo contro Daesh, ma anche contro il maschilismo, contro la guerra, contro le «autorità» (perfino quelle riconosciute da Europa e Nato, vedi la Turchia) ottuse e fascistoidi. Rovelli sintetizza alcuni sentimenti più generali di Avesta e dei kurdi, in occasione dell’attacco di Daesh al campo di Mexmur: «Mexmur è il popolo in cammino verso la sua liberazione, è l’esodo in un deserto da dove, prima o poi, si giungerà alla terra non promessa, ma voluta e conquistata. Mexmur, infine, è la testimonianza suprema della volontà di vita degli umani». Il passo, la «cifra» del romanzo è condivisibile ed empatico, unisce i sentimenti e le scricchiolanti certezze, sotto il peso degli occhi di Avesta, delle sue sofferenze da ragazzina, per finire in una morbida ma importante disciplina. Avesta la soldatessa, «dura senza perdere la tenerezza» come voleva il Che, una contemporanea paladina dei diritti del suo popolo, che schiacciati e martoriati, diventano quelli di tutti. E Avesta ben si presta all’epica di Rovelli, perché non è proprio una qualunque tra i kurdi: è una combattente e una comandante. Tanto che Foreign Policy, quando uno dei suoi giornalisti l’ha incontrata e intervistata, l’ha definita – già nel titolo – «badass»: una tipa tosta, dura, preparata e rigorosa. E proprio l’empatia che la forma narrativa crea, disturba forse l’epica di Avesta. In alcuni tratti, le sue parole rischiano di apparire retoriche e vanno valutate, dal punto di vista del linguaggio, nella situazione in cui vengono dette. È il limite di un romanzo che scorre bene ma che forse abortisce qualcosa, come ad esempio il contraltare ad Avesta, ovvero la storia del combattente di Daesh. Ma forse è «il» limite del romanzo, che su fatti come quelli raccontati – bene – da Rovelli emerge in tutta la sua forza. Forse, per narrare storie così complesse, seppure così apparentemente note e comprensibili, le forme tradizionali di scrittura non bastano più. |
|