Marco Rovelli

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04/06/2016

Recensione a La guerriera dagli occhi verdi sul Tirreno di Melania Carnevali

Era Filiz Saybak. Una bambina nata nel 1990 e cresciuta nelle strade polverose del Bakur (il Kurdistan turco) in un periodo in cui parlare curdo e portare la kefiah era reato. Ha 22 quando decide di imbracciare un fucile e seguire le orme del fratello maggiore, Harun. Lascia tutto, anche il suo vecchio nome, e sale in montagna insieme ai guerriglieri del Pkk (il partito dei lavoratori del Kurdistan, attualmente considerato organizzazione terroristica) per lottare contro lo Stato turco e per la libertà di un paese che non esiste: il Kurdistan. Diventa Avesta Harun, una cecchina formidabile. Entra a far parte del gruppo speciale e diventa comandante della sua squadra. Poi arriva un nuovo nemico da combattere: l'Isis. E lei guiderà forte e caparbia la sua unità del Pkk nella lotta al Califfato liberando un villaggio dietro l'altro. Muore sotto il fuoco dell'Isis durante un'operazione per la riconquista di un villaggio vicino a Mexmur nel settembre 2014. E diventata un simbolo della Resistenza curda. La sua storia è contenuta adesso in La guerriera dagli occhi verdi (Giunti, pp.160, euro 16,50), il romanzo di Marco Rovelli, scrittore e musicista massese. Un libro che parla delle tante combattenti curde. Della loro emancipazione e del loro riscatto nei confronti di una società fortemente patriarcale e maschilista. Ma non solo. Il romanzo trascina dentro la storia di un popolo a cui è sempre stato negato il diritto di essere popolo. Racconta la persecuzione subita dai curdi da parte del governo turco. Parla della guerra e dell'Isis. Rovelli porta il lettore in quelle montagne dove da quarant'anni si combatte quasi ininterrottamente e dove trasuda anche dagli alberi la voglia di pace. Un libro che andava scritto e che quasi si vorrebbe non finisse mai. Marco Rovelli, tante ragazze come Avesta hanno scelto quella vita sui monti, tra le foreste e la neve. Perché ha scelto lei? «È stato un caso. All'epoca non avevo idea di cosa avrei scritto; sapevo che volevo scrivere qualcosa sul Kurdistan ma non sapevo cosa. Poi ho letto un'intervista ad Avesta su Foreign Policy . Mi è piaciuto come si raccontava, quello che diceva. E la sua foto ha fatto il resto. Una tosta, come diceva il titolo dell'intervista, ma che allo stesso tempo era intimidita dall'obiettivo. Poi qualche giorno dopo è morta e ho capito che dovevo parlare di lei. Una decisione istintiva. E così è andato nel Kurdistan turco e iracheno sulle sue tracce. Cosa l'ha colpito della sua storia? «Quello che mi ha colpito è che i combattenti che stavano con lei ne parlavano in un modo smisuratamente bello. Per me lei era una tra tante, sono partito senza pensare che fosse un'eroina. E invece le persone che mi hanno parlato e quelle che mi hanno scritto parlavano di lei come se fosse al limite della realtà, con grande affetto, grande reverenza». Quando è andato là, ad agosto dello scorso anno, era appena terminata la tregua tra il governo turco e il Pkk che durava dal 2013. E in Iraq il Daesh si espandeva. Ci sono stati momenti di paura? «Il momento non era certo dei migliori. Dovevamo andare sulle montagne, ma non siamo andati perché bombardavano. A Mexmur la prima notte ho dormito con fatica. Un giorno ho sentito anche degli scoppi, mi hanno detto: "Tranquillo, è un'esercitazione". Non so quanto fosse vero. In ogni caso poi ti abitui, non ci pensi più». E momenti belli di quel viaggio? «Stare lì con i combattenti è stato emozionante. Viverli nella loro quotidianità, attorno a un tavolo, a chiacchierare. Parlare per ore con loro che sono persone ascetiche, accoglienti, pulite, belle, hanno veramente una luce interiore, ti guardano negli occhi. E si rispecchia nella definizione di ideologia che uno di loro mi ha dato: "L'ideologia non è il modo in cui pensi, ma il modo in cui stai seduto al tavolo e parli con me". Sono parole, che quando le vivi, quando parli con loro, smettono di essere solo parole e diventano fatti». Nel 2015 ha pubblicato Eravamo come voi, un libro sui nostri partigiani, della loro scelta di vita. Somiglianze con i partigiani curdi ce ne saranno tante, ma differenze? «Si tratta di scelte radicali in entrambi i casi, che implicano una messa in gioco della propria vita. Il contesto però è completamente diverso. Da una parte, quella dei curdi, si tratta di una catena infinita di causa ed effetto, una sorta di dimensione tragica, dove è il fato che domina gli eventi. È una totalità che ti sovrasta e tu annulli il tuo io. Nel caso dei nostri partigiani è stata una scelta più frammentaria e di più breve durata. I nostri partigiani sono diventati tali in un momento di rottura, era inatteso. Qui c'è una continuità». Come finirà la lotta per la libertà dei curdi? «Me lo sono chiesto ma non ho una risposta. Non ce l'hanno nemmeno loro. La risposta è esemplificata in Mexmur: un paese in mezzo al deserto, dove tutti dicono di essere in un campo profughi perché sperano di tornare nei loro villaggi nel Kurdistan liberato. Ma è difficile credere che possa succedere».

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