Marco Rovelli

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11/06/2016

Intervista intorno a La guerriera dagli occhi verdi su Vanity Fair di Monica Coviello

Avesta aveva 22 anni quando è salita in montagna, e ci è rimasta dieci. Ha seguito l’esempio di Harun, il fratello che adorava, e che è stato ucciso: ne ha anche preso il nome. Ha lasciato i villaggi curdi in cui è cresciuta per andare a combattere contro il governo turco e contro l’Isis. Una lotta per il Kurdistan libero, per cui ha sacrificato anche la sua vita.

Il suo volto, i suoi occhi verdi, lo sguardo quasi intimidito dall’obiettivo, nel settembre 2014, fanno il giro del mondo. Lo scrittore Marco Rovelli, di Massa, legge una sua intervista e rimane colpito, ma solo pochi giorni dopo viene a sapere della sua morte.

Decide allora di scrivere un romanzo che si ispira alla sua storia, e per farlo parte per quelle montagne, incontra i guerriglieri curdi e la famiglia di Avesta Harun. Il libro si chiama «La guerriera dagli occhi verdi» ed è appena uscito per Giunti Editori.


Chi era Avesta?
«Una donna alta e sottile, ma forte e abile, tanto da scegliere di vivere sui monti del Qandil, tra le foreste e la neve, entrare nel gruppo speciale e diventare comandante della sua squadra. Forte, ma dolce e incredibilmente generosa: così la ricordano i compagni».

E la famiglia?
«La madre, diventata “capo” di una famiglia numerosissima, come tutte quelle curde, dopo la morte del padre, era distrutta dalla perdita della figlia, ma altrettanto orgogliosa: con rispetto parlava della battaglia di Avesta, che si era sacrificata per tutti loro».

Per il suo popolo.
«Nella lotta dei curdi del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, si combatte per qualcosa che riguarda tutti, una vita comunitaria radicalmente democratica e la libertà. Come Avesta, tante ragazze scelgono quella vita sui monti».

Quante sono?
«Un terzo di tutti i combattenti. Ed è perché l’emancipazione femminile, fin dagli Anni 70, è uno degli elementi portanti della lotta dei curdi».

Come sono i guerriglieri che vivono sulle montagne?
«Diversi da come li immaginiamo. Vivono sei mesi all’anno in mezzo alla neve, nelle grotte: è facile figurarseli duri, ruvidi. Ma sono persone che hanno dimensione interiore profonda, che guardano dritto negli occhi, che non hanno perso la gentilezza né la tenerezza».

Quelli che hanno combattuto con Avesta, che cosa ricordano di lei?
«La forza di volontà, la capacità di dimenticare il proprio ego in favore di qualcosa di più grande. E la costante ricerca culturale. Tutti i combattenti, in montagna, studiano, leggono libri, discutono, cercano di aprire la loro mentalità: con loro ho discusso di capitalismo, di Dostoevskij, di Giordano Bruno».

La lotta di Avesta, quella dei guerriglieri delle montagne, sta funzionando.
«Sì: nell’ultimo anno l’Isis è arretrato, i curdi hanno riconquistato buona parte del loro territorio. L’Isis si è fatto strada con autobombe, lanciagranate e mortai, ma non conosce le tecniche di combattimento: nella battaglia sul campo, i curdi sono decisamente superiori».

Che cosa ha imparato da loro?
«La bellezza, la forza e la generosità. Ho dormito in una casa di clandestinità insieme a due comandanti combattenti del PKK. Mentre guardavamo la tv abbiamo sentito la notizia di un attentato a un blindato turco e della morte di militari turchi. Il comandante era accanto a me ed è rimasto impassibile, senza manifestare soddisfazione. Ha avuto solo un moto di sconforto quando, dal nome, ha capito che uno dei morti era curdo. Perché, nonostante si siano consegnati alla morte, loro combattono per la vita».

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